Maledizione. Mi preparo a sputargli in faccia una minaccia, quando scorgo qualcosa con la coda dell'occhio: solo un'ombra, non realizzo in modo concreto cosa sia accaduto, ma il gelo che mi stritola le viscere sembra aver già un'idea terribilmente chiara. Il corpo schiva istintivamente a destra, abbastanza per evitare di un pollice un colpo di falce che avrebbe tranciato un olmo. Dalle mie spalle una ventata nauseabonda; nove piedi di creatura – un misto di ossa umane e d'uccello – coperti da un intero manto di gigantesche piume color pece, escono dalla nebbia, mi sovrastano. Conto almeno sette crani (il più grosso è corvino, alcuni sono umani, forse c'è pure quello di un orso...), ma non ho tempo: questa volta il braccio sinistro scatta, la lama della falce brilla nella foschia. 'sto giro non schivo un cazzo, provo a parare con una rozza guardia di terza, ma non serve a nulla: mi schianto contro una pietra, a sei passi da dov'è avvenuta la collisione, crollo nell'erba madida d'umidità. I dolori all'omero destro mi suggeriscono non sia stata una buona idea, è sicuramente frantumato. Non potrò combattere senza tornare laggiù.
Mi rialzo, la spada come stampella, cerco di capire dove si trovi la creatura – il guardiano di questo cimitero – ma un lago di sangue mi esplode dai polmoni: bene, allora è entrato veramente in profondità.
Il bastardo mi guarda con tutti quei cazzo di occhietti che si ritrova, dalla stessa posizione nella quale si trovava quando mi ha colpito; si gira leggermente verso di me, e scatta di lato. La nebbia è troppo fitta, il sudore ed il sangue mi annebbiano la vista già da giorni, e me ne accorgo troppo tardi questa volta: la falce cala sul femore, d'istinto la spada parte verso la creatura, ma gli scalfisco solamente l'osso del braccio – o della zampa? - destro. Io, in compenso, ci rimetto completamente l'utilizzo della gamba sinistra, recisa quasi totalmente. Mi accascio a terra, mi tengo la gamba dibattendomi, urlo, mi dispero. Mi sento impotente, la merda è fuori misura, in sicurezza da qualsiasi mio affondo, infiniti abissi dentro una dozzina di cavità oculari.
Occhi verdi senza più una scintilla di speranza; pelle color della seta, squarciata da artigli d'ebano. No, non di nuovo... vi prego. Non un'altra volta.
Apro gli occhi, e sono nella fossa delle candele. La nebbia è un lontano ricordo, il cielo non esiste in un posto come questo. Un letto di gelide pietre mi circonda, illuminate solamente dalla fredda luce di centinaia di candele. Tutto il resto è ingurgitato dal buio più profondo. Da quanto non venivo qui? Non lo facevo da molto, ma prenderò qualcosa in prestito. Tiro un colpo di spada, le candele più vicine a me si spengono.
Esplodo in un'ondata di rabbia. Impugno saldo la spada, un lontano suono di legamenti squarciati, un osso si spezza del tutto, ruggisco di una nuova vita. La gamba sinistra è inutilizzabile: la destra farà il doppio lavoro. L'essere mi attende, apre le braccia, un urlo esce dalla miriade di bocche. Mi scaglio contro la creatura, folle di rabbia, di perversa euforia.
Il combattimento sembra non poter finire mai; il mio avversario, questa volta, è veramente una prova ardua da superare. Ma nessuno può resistere alla vera paura.
Sono gli strattoni a risvegliarmi. Prono, faccia a terra, guardo la spada di fronte a me, ed la mano contorta che ancora la impugna, speranzosa. Non riesco praticamente a muovermi, sono totalmente maciullato, eppure il mio corpo continua a sussultare: non capisco. Inclino la spada, nel tentativo di portarla più vicino a me, e lo vedo nel riflesso della lama: alle mie spalle, appollaiato sul mio corpo, la creatura evocata dal corvo con tre occhi mi sta mangiando. Strappa lembi di carne dalla mia schiena, squarcia le interiora, ogni sua testa affondata in quello che resta della miseria che sono. Ora realizzo tutto:
ho perso.
« Idiota, non hai più l'energia per muovere un dito, hai distrutto ogni fibra del tuo corpo nel vano tentativo di vincere una battaglia persa in partenza. Hai fallito. Di nuovo. Miserabile. »
Avete ragione, non sono stato abbastanza. Mi spiace, ragazzi. Mi spiace, Lucille.
Sento ogni singolo strattone, ogni singola fibra lacerata. Sento perfino il suono delle mandibole che schioccano, i grugniti di piacere, i gorgoglii dell'ingestione. In lontananza, lo sbuffo di un geyser. Il corvo si appollaia su un sasso, fra l'erba alta, e mi guarda con quei suoi occhietti neri, profondi come un infinito oblio...
Oblio. Una goccia disturba la linea nera e liscia dell'acqua, come un lago notturno, e sto annegando. Mi getto fuori, riprendo fiato – sembra un secolo che non respiro – e l'ossigeno mi inonda i polmoni, il dolore allucinante di un'ustione. Il gusto ferroso che mi ritrovo in bocca è un chiaro segnale: non è un lago d'acqua quello in cui mi ritrovo.
Striscio fuori, di fronte a me i monoliti di carne: modellati da menti perverse, alti fino al cielo, si stagliano fino all'orizzonte. La sensazione è chiara, vogliono qualcosa da me, ma non parlano. So che potrebbero – sento il loro respiro nel cranio – ma, o son troppo stupidi per farlo, o lo sono io.
Continuo a strisciare, non ho le forze per alzarmi; il terreno è composto da viscere pulsanti, noto la stessa firma del folle artista che forgiò i monoliti, quando vedo la mia mano: è nuda. Lo sguardo corre su tutto il mio corpo, sono totalmente nudo. Non indosso l'armatura, la pelle una ragnatela di ferite aperte, il sangue sgorga nero alla luce di questo sole purpureo. Il braccio contorto, in condizioni orribili; la gamba quasi del tutto lacerata, una cascata di pece dallo squarcio.
Mio dio,
da quanto non rivedevo il mio corpo?
Non sento dolore, non sento più nulla... Quaggiù le voci non mi tormentano, sono finalmente in pace. Solamente il freddo, un freddo quasi cullante, mi abbraccia; e, lentamente, mi lascio andare.