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Il primo rivoluzionario

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view post Posted on 8/3/2020, 11:20
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Chrysalis (vincitore)
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Buona lettura


C'era una volta, molte epoche fa, un mondo in squilibrio. E sopra a tale squilibrio l'esistenza stessa traballava. Due grandiosi imperi si spartivano il reame onirico dell'interpretazione della realtà, scontrandosi nelle loro eterne battaglie per sopprimersi a vicenda. La ragione da una parte, la passione dall'altra.
Entrambe muovevano valenti argomentazioni in appoggio delle loro cause superiori, perciò gli uomini, inanime marionette accondiscendenti, non potevano che pendere dalle loro soavi labbra, incapaci allora di comprendere, scegliere e dunque ribellarsi. Si concedevano a queste danze nauseanti senza poter rifiutare l'invito.
Poiché nel rollio nauseabondo sulla tolda della chiatta dell'evoluzione la mente dei viventi stava ancora auto-programmandosi. Abbarbicata all'albero portante della nave, artigliava con forza il legno farinoso nel tentativo disperato di evitare di perdersi alla deriva e di affogare tra i flutti bui e affamati della sua esistenza. Cercava invece, con fine meticolosità, di trovare il modo per esaudire, con sempre più naturalezza, un compito ultimo trascritto nei fondamenti stessi dei propri codici esistenziali: la preservazione della specie.

E seppur organizzato con maggior rigore, ad un certo istante non meglio precisato della storia, il macro-mondo razionale dovette soccombere alla sensuale morsa appagante del primordiale e puro istinto emozionale. Fu in effetti un richiamo fin troppo prelibato per gli esseri viventi. L'essenza stessa insita nello sconfinato desiderio di sperimentare le attraenti sensazioni del mondo circostante e soddisfare i rudimentali sentimenti ignoti permise dunque all’inconscio onnipotente di prevalere.
E soltanto in seguito a tale vittoria maturò il dubbio dell'aver lasciato trionfare lo schieramento meno adatto alla propria sopravvivenza. Anno dopo anno diventò sempre più lampante la prova evidente che gli uomini, privi di una qualsivoglia ragione, rappresentassero per la loro specie nient'altro che un caos autodistruttivo; una goduriosa purulenza che dirottava la nave maestra in direzione di un maelstrom di folle libertà. Fu l'epoca della pazzia vivente. E per essa non esisteva alcun rimedio, dal momento che l'unico rimedio esistente era la pace onirica dei sensi offerta dalla quiescenza totale che la razionalità aveva portato a favore della propria causa durante le primordiali battaglie evolutive; come quella di ogni elemento dell'insieme-universo che tende inesorabilmente verso uno stato ricorrente di quiete atomica.
Dovettero pagare uno sforzo immane, i viventi, per riuscire a riesumare lo schieramento che credevano di aver perduto per sempre. In parte, questa immane fatica fu conseguenza però anche di una loro volontà contraddittoria che remava contro se stessa nel compimento di tale impresa. Annichilire il loro delirio auto-devastante in un sonno profondo e senza sogni nonché in un letargico coma perenne e congeniale altrimenti definito estinzione cognitiva non pareva all'uomo una valida alternativa al dissennato maelstrom passionale.

E fu solo allora che le creature compresero. Capirono di essere burattini di burattinai che nientemeno erano che i burattini stessi e in questa illuminante consapevolezza rivendicarono finalmente il libero arbitrio. Scelsero, ottenendo la facoltà di ribellarsi alla loro stessa natura opprimente.
Questo apprendimento fu un arco di trionfo oltre il cui confine v'era un mondo di contezza. Dedussero allora che la condizione migliore per la loro sopravvivenza risiedeva in uno scomodo, seppur necessario, compromesso tra i due grandiosi imperi che dirigevano, come appassionati registi di teatro, la loro interpretazione della realtà. E slanciati da questa ispirazione accettarono quindi, rassegnati ma all’unisono come un vero popolo, di non poter raggiungere una qualsiasi forma di indipendente libertà. Ammettere di essere schiavi della loro stessa essenza vivente sarebbe stato infatti l’unico accomodamento accettabile per la definizione traballante, ma pur sempre tangibile, di una parvenza di esistenza pensante in un'appagante, seppur esauribile, felicità. L'equilibrio tra puro sentimentalismo e freddo razionalismo fu infine raggiunto. E l'uomo trovò in esso la chiave dorata che innescò il soggettivismo, imprigionando il caos autodistruttivo dell’effimero soddisfacimento della propria volontà con catene di cartone, forgiate nelle regole civili della società e nella credenza dell'esistenza di valori etici concreti da dover accudire con parsimonia. L’individuo esternò dal proprio sé l'essere sovrano di se stesso e per sempre divenne schiavo di padroni insignificanti, rassegnandosi alla sua scontrosa natura dicotomica che li aveva progettati. Fu l'epoca dell'equilibrio.

Ma durò poco. Venne infatti il giorno in cui gli uomini dimenticarono loro stessi e di come la condizione vivente non permettesse di ottenere un’indipendente libertà, se non con la pazzia o il nichilismo. Corrotti dall'appetizione per la liberazione dell'animo umano, dunque, l'epoca della giustizia venne brutalmente stuprata dai viventi e per l’ennesima volta il macro-mondo dell’irrazionalità trionfò, in una battaglia che mai però fu combattuta veramente. Nessuno infatti ricorda quando ciò accadde perché in realtà non accadde affatto. Fu un istante, un’intuizione meschina. L’essenza stessa delle restrizioni etiche venne violata senza che nessuno se ne accorgesse, così che gli uomini smisero, all'improvviso, di essere comuni fratelli. Le ideologie vennero plasmate in modo da rivestire alcuni viventi del diritto di prevalere e quindi appagare i loro ardenti desideri sulle spalle dei più ignoranti, troppo ciechi per rendersi conto che tali possibilità spettavano pure a loro, per semplice diritto di nascita. Tale colpo di stato venne definito selezione naturale e in questo suo nome altisonante trovò un comodo giaciglio la sua legittimità, e gli uomini giudei credettero di ottennervi l’assoluzione dalla loro tremenda colpa capitale.
Così la schiavitù conquistata guadagnò un nuovo connotato: divenne sottomissione. E gli schiavisti ottennero una parvenza di libertà nell’illusione della loro stessa corrotta supremazia. Fu l'epoca dell'ingiustizia nonché l'era della competizione.

Poi, quando ormai tutto sembrava per sempre ristagnante comparve infine un uomo. Si racconta che sbucò dal nulla in sella al suo anonimo roano all’alba di una mattina di primavera, scendendo dalle colline al di là del tramonto. Dentro la propria corazza bianca, dal candore imperturbato, quell'uomo possedeva un cuore, e dentro quel cuore ardeva danzando, in un arabescato ballo caraibico, una bruciante passione. E le trame di questa passione erano tessute di sogni.
Stando al racconto, ovunque quell’uomo poggiasse piede fiori sbocciavano con esaudita malinconia, ognuno esatta copia dell’altro. Di contro, sulle sue spalle possenti, il cavaliere trasportava un tenebroso spadone infrangibile e gli uomini che cadevano spezzati dall'oscurità della sua lama morivano con rassegnata accoglienza.
Iniziò l'epoca della disillusione.

Mille-e-una battaglie combatté l’uomo per portare la pace agli esseri che dominavano quelle lande paradisiache. E le vinse tutte, quelle dannate battaglie. Eppure, quando arrivò anche per lui il momento di consegnare la propria anima alla morte ed ebbe quindi il tempo, l’ultimo attimo, di togliersi l'elmo e voltarsi indietro per ammirare infine il mondo che si era lasciato alle spalle, tra i contorni dei numerosi cadaveri che aveva seminato, vide una luce imperiosa risplendere su tutto il continente. La stessa, medesima, realtà che lo aveva abbagliato, nel suo sguardo corrucciato, quando anni prima era sceso da quelle colline distanti al di là del tramonto. Risplendeva ancora, quel maledetto lume, fastidioso come allora se non di più.
E dunque l’uomo comprese ma fu troppo tardi. Aveva creduto di trovare purezza nei deboli e negli assoggettati eppure si accorse di come la purezza risiedesse nient’altro che nell’essenza della debolezza e della sottomissione. Fuggevole come una brezza. Un lontano miraggio di riscatto e già lo spirito genuino affoga nella perdizione della corruzione. E in tutto ciò si rese conto di quanto avesse sprecato la propria vita nell’inutile tentativo di aprire gli occhi a esseri ciechi, abilmente impegnati nel loro vantaggioso ruolo di menzognera supremazia. Le sue imprese avevano sì cambiato i regnanti ma non gli uomini, i suoi sforzi avevano mutato sì gli imperi ma non il mondo. Di lui nessuno si sarebbe mai ricordato, banale esistenza in un noioso cliché.

Ed eccolo lì quel cavaliere, inesistente nella sua vana guerra contro lo status quo, piegato su se stesso nell’ultimo frangente della propria vita. Una lacrima solitaria che solca il suo viso stanco per morire dentro un sorriso mesto. E davanti a lui, tutt’attorno, un nemico invincibile, perché intangibile e virulento: l’umana natura alla corrotta ricerca di un’appagante libertà.

Questa è la storia dell’affabile arroganza di Agilulfo, il primo, e forse l'ultimo, dei sentimentalisti rivoluzionari.




Il post si può suddividere in due parti: la prima in cui descrivo l'evoluzione di un titano, nello specifico la natura umana; la seconda in cui descrivo o quantomeno sottolineo maggiormente l'impossibilità umana di sconfiggere tale titano (ricollegandomi al titanismo), ovvero la propria stessa natura, nonostante addirittura l'ottenimento, col passare delle epoche, di una consapevolezza maggiore (la coscienza di sé). Spero con questo di aver reso quel senso circolare che avrei voluto dare al testo, dove il finale praticamente si ricollega all'inizio, e, come l'uomo, nient'altro che un cane che si morde la coda. Ed anche in questa struttura del testo spero di aver dato quel tocco di senso al contest con il tema del titanismo che gli avrei voluto dare: nonostante la coscienza di sé, ma più in generale di qualsiasi altro elemento si raggiunga con l'evoluzione, l'uomo è e sarà sempre marionetta di se stesso e delle proprie individuali e primordiali pulsioni.

Ma sarebbe riduttivo affermare che i temi titano e titanismo siano gli unici affrontati in questo post. Credo di aver buttato nel calderone un sacco di spezie, forse fin troppe (e chiedo scusa se la zuppa che ne è uscita fuori è una totale confusione ma ahimé questo è il modo con cui mi diverto a scrivere: impiastricciare una pagina web con la confusione delle idee che ho in testa; una sorta di disordine ordinato; e a me piace, lo trovo artistico). Uno tra questi temi è chiaramente quello del sentimento rivoluzionario, quell'emozione fortissima che ci spinge a provare pietà per i sofferenti e quindi ci sprona ad aiutarli (perché? perché l'evoluzione ci ha fatto sviluppare questa potente ma sicuramente inutile per l'individuo (e, secondo me, anche per la specie in generale) emozione empatica?).

E poi sono felicissimo di aver mosso, in un modo che mi ha appagato veramente tanto, uno dei personaggi preferiti della mia infanzia/adolescenza: Agilulfo, il cavaliere inesistente, di Italo Calvino. E sappiate che questo post è in realtà un ode a lui. A lui che sarà presto un mio compagno animale.

Spreco inoltre altre righe per chiedere scusa al malcapitato filosofo o studente di filosofia che sia qui inciampato e abbia letto il mio post. Lo so bene: molti dei concetti che ho affrontato li ho affrontati male perché non li ho mai studiati direttamente. Perciò ti chiedo scusa. Tutto quello che ho scritto sono deduzioni che ho sviluppato (e che quindi avevo la necessità di scrivere per ricordarmi) partendo dalla mia passione: lo studio delle neuroscienze del dolore.

E sì, se non l'avevi ancora capito: H I G è fottutamente prolisso!

 
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