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Guasto, Contest Aprile: Preghiera

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view post Posted on 19/4/2020, 16:08
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GUASTO
Non esiste marchingegno più complesso e difettoso della nostra limitata mente.


La mano sinistra si infila nel macchinario alla ricerca di una fessura nella penombra, accentuata dal bagliore celeste dell'eterite; quando finalmente il polpastrello trova l'agognato rigonfiamento con un foro a croce, guido con l'altra mano il cacciavite ed inizio a girare. Questo magazzino è importante, mi dico costantemente da quasi una dannatissima ora, e quindi cosa faccio? Vai di polso, Gideon, vai di polso. Che 'sto magazzino serve a tenere buona la carne, e se l'apparecchio per abbassare la temperatura salta questa va a male. Questo non va bene, mi dico, perché a tutti piace la carne - me compreso, non posso negarlo - e quindi eccomi qui dopo quasi due, forse tre ore a cercare cosa c'è che non funziona nel generatore. Un'ora è passata solo a capire cosa quel maledetto imbecille aveva scritto con quella grafia microscopica nel progetto schizzato, sia chiaro. Una maledettissima ora. Avendo concluso che calamaio e penna non andrebbero dati in mano a bifolchi per farci progetti, ho deciso che sarebbe invece stata un'ottima idea improvvisare un mio schizzo e farmi un'idea di come funzioni; eccomi quindi qui, mani doloranti e una gran voglia di prendere a calci sto ciarpame finché non rimane che un cumulo di cazzate assemblate a casaccio. Cosa che, tutt'ora, è già. Chi cazzo l'ha costruito 'sto aggeggio? E perché devo essere io a risolverlo?

«Stai perdendo tempo, Kat. È roba troppo...come si dice...ingewikkeld per te.» Mi tocca fermarmi un attimo nel tracciare la linea per evitare che la mano mi tremi dall'irritazione. Provo ad inspirare per ricacciare giù il bisogno di urlare. «...ma vedi di stare zitto.» Una rapida occhiata alla pergamena mi rivela un progetto caotico, e in verità quel bastardo di Yarin non ha tutti i torti. «Lascia fare. E ti ficco 'sto cacciavite su per il culo se mi chiami di nuovo così.» borbotto invece, e provo ad ignorare il malessere che mi sta attanagliando all'altezza dello stomaco. Non so nemmeno che cazzo ci faccia Yarin lì, a dir la verità, sta semplicemente lì a reggere la maledettissima eterite e illuminare la stanza per evitare che io stia nel più assoluto buio. Gentile, per carità, ma il risultato sarebbe uguale e meno frustrante se l'avessi appesa da qualche parte al soffitto. Però nooooo, deve esserci lui, il Sesto non è abbastanza buono perché si mandino gli operatori da soli. Anche se, secondo me, meglio soli che in compagnia di qualcuno che con quella faccia da ebete che si ritrova deve avere del sangue d'orco dentro. Ma, di nuovo: Yarin non ha tutti i torti. Sennò non starei squadrando quel bullone mezzo svitato da quasi un minuto, la chiave inglese ancora lì dentro, indeciso se valga la pena rimuovere anche quello o meno per comprenderlo nel progetto. Vale davvero la pena riprodurre l'intero progetto per riparare quel singolo problema? Smontare tutto, ricominciare da capo e dimenticarsi quanto costruito in precedenza?

L'occhio scivola sul palmo macchiato di nero dall'inchiostro, gocce come di sangue che scivolano sul pavimento in pietra. L'involucro in metallo al centro della stanza contiene al suo interno un insieme di materiali conduttori e pattern per irradiare e regolare a dovere l'etere, il tutto è assemblato in modo sì funzionale, ma poco elegante. Disarmonico, ed è qualcosa che non riesco a capire, è come se tutto questo meccanismo per congelare il cibo fosse inutilmente legato a vecchi principi e concetti. Parliamo di roba che forse tre, quattro anni fa avrebbe avuto senso; eppure siamo avanzati da allora, no? Abbiamo visto che la congiunzione Gamar-Frés dopo due mesi inizia a diminuire l'afflusso eterico ed alterarne le proprietà per un margine del 3-10%, eppure continuiamo ad implementarla nei nostri progetti, a non sostituirla. «Ma si può sapere perché cavolo non le abbiamo cambiate ste paccottiglie?» Mi volto un attimo per cambiare la chiave, intravedo quel buffone alzare le spalle. «Perché quello è l'unico pattern che riesce a convogliare l'etere nel condotto principale abbassando il tasso di dissipazione a livelli accettabili.» Eteroconduzione base, risposta ovvia. Ma, d'altronde, era stupida anche la mia domanda. «O ne hai inventato uno migliore mentre le migliori menti di Oralia dormivano?» Certo che no, coglione. Ma è così...dannatamente...fallibile. Duemila anni da quando siamo usciti da quel buco nel terreno e siamo tornati a vivere, trentaquattro dalla creazione di quella particolare congiunzione, e davvero non sappiamo far di meglio che scegliere un metodo inefficace per fare qualcosa di così semplice come tenere fredda la carne in questo maledettissimo magazzino ai margini della città?

La risposta è sì. Anche se al margine del mio (ri)progetto ho scritto qualcosa come una mezza dozzina di suggerimenti di miglioramenti per un progetto futuro, è tutto inutile. Non ha importanza quanto mi ci arrovelli su, la realtà è che queste proposte non hanno senso né fondamento, e probabilmente rischiano d'essere contradittorie o addirittura dannose. Non c'è soluzione a questo problema, solo pezze su pezze da mettere in attesa di un non-so-che. Del prossimo intoppo nel meccanismo, forse, al primo giungere di una briciola di pane fra gli ingranaggi o qualcosa che interrompa il pattern, o qualcos'altro come qualunque cazzata che non ho ancora scovato in questo marchingegno. Macchine e costrutti fallibili quanto i loro creatori...che cosa patetica. E niente, ho gettato da qualche parte nel buio la penna, non ho visto nemmeno dove è andata, forse sotto qualche scaffale - non importa manco più. Son già in piedi, pronto ad andarmene, uscire e prendere una boccata d'aria fresca. Yarin sembra volermi fermare, ma saggiamente cambia idea: si scosta, mi fa spazio (come se ne avessi bisogno, sono un terzo della sua stazza) e un attimo dopo sono sotto il sole cocente di un mezzogiorno, che vuole quasi sbattermi in faccia che esiste un mondo all'infuori di questo capannone del cavolo. E io invece sto scegliendo di riscrivere un progetto da capo invece di rimettere a posto uno che secondo me è fatto col culo. Chi me lo fa fare, mi dico.

La gente passa davanti o si affaccia dai botteghini sulla strada, la vita scorre come un fiume pur rimanendo placida ferma, ognuno nei suoi pensieri, ognuno nelle sue preoccupazioni, facendo finta che non succede nulla. Eppure il magazzino è guasto, la carne se non consumata o salata a dovere rischierà di non funzionare, come fanno questi idioti a ridere o camminare senza farci caso? Perché sono tutti così calmi?

«Si può sapere perché sei così...» «Inutile?» sbotto con un sussurro che non sente, o che magari sceglie di ignorare. «Irritabile.» Sento due spilli freddi da dietro le mie spalle, è il suo sguardo. Non so mai come leggere il suo viso, se dietro quella faccia poco espressiva si celi una qualche incapacità di mostrare emozione o una ragione che lo porti a doverle mascherare. O ancora, se non ne prova. Magari non sempre la gente prova qualcosa. Magari non esiste una forma di feedback leggibile. Un macchinario può funzionare o non funzionare, l'inceppo si può vedere - la mente? Non esattamente. Non ho nemmeno una chiave inglese per sistemare se qualcosa non funziona. «Perché non sono manco in grado di risolvere questo!» faccio un gesto rabbioso per indicare l'interno dell'edificio, con cui per poco non mi sfracello le nocche sulla soglia della porta. «Che senso ha che non riesca nemmeno a fare l'unica cosa che mi riesce?» di nuovo la voce sibilante, colma di una rabbia che attira lo sguardo timoroso di qualcuno, ma non mi importa. Gli occhi sono ora piantati su Yarin, e da lì non si smuovono. Lo ammetto: in condizioni normali non sono molto più simpatico, ma in realtà Yarin è abbastanza tranquillo e tollerante delle mie sfuriate. È pure qui da più tempo di me, mi guida e andiamo vagamente d'accordo, eppure in questo preciso momento vorrei strappargli le corde vocali, perché non possa rispondermi. Perché nulla che potrebbe dirmi avrebbe senso, e anche se lo avesse...non lo vorrei sentire. Forse, soprattutto se lo avesse.

E invece mette la mano sotto la camicia e tira fuori un piccolo amuleto legato alla catena che indossa sempre. So già cosa è, lo ha rivelato agli altri compagni di stanza nella caserma e avevamo tutti promesso che l'avremmo mantenuto un segreto. Per quanto possibile, visto che in una maniera o nell'altra il vecchiardo a capo di questa gabbia di matti che è il Sesto porta sempre i nodi al pettine. Una spada scarlatta che impala un serpente, avvolto attorno ad un anello dorato, un elaborato monile appartenente a quegli squilibrati di Idomea. Dovrebbero cacciarli tutti a calci, quei fanatici tradizionalisti. «Non siamo perfetti, non importa quanto ci impegniamo.» Mi mordo la lingua. Allora che senso ha impegnarsi? A che pro tutto quanto? Le flessioni fatte per poter combattere efficientemente, gli esercizi per praticare la magia e la teoria dietro i meccanismi. «Il nostro lavoro è riparare, non mettere a punto nuovi sistemi. Lascialo a chi ne ha competenza, dannato il tuo orgoglio.» Yarin sa perfettamente che non mi era mai andato a genio quel discorso: se non andando alla fonte, mettere le pezze non aveva senso. Continuare ad essere un ingranaggio per far funzionare un sistema fallimentare non giustificava nessuno dei principi d'obbedienza o della catena di comando, non importa quanto questa catena ritenesse proficuo quel sistema. Eppure, puntualmente, lo riproponeva. «Non mi importa dell'orgoglio, Yarin. Nulla ha importanza.» mi guardo le mani, aprendo e richiudendole in pugni come se in una qualche maniera volessi cercare di afferrare le redini di una vita che continua ad assumere valore solo quando metto mano a quei marchingegni, e come uno scrittore davanti ad un libro riuscivo a creare qualcosa di nuovo da strumenti mondani. È solo uno stupidissimo congegno refrigeratore sperimentale, dice una parte di me. Forse la più razionale, o magari quella più impanicata che vuole mettere un tappo al rubinetto che sta gocciolando da anni tenendomi sveglio la notte: quante volte non le ho dato ascolto? Ormai tante. Anche ora mi sembra una follia darle del tutto ragione (non che avesse torto, certo). Vero, è solo un affare, ma il problema è ben più grande. Questo episodio? Nulla più che un promemoria che non si può sfuggire a questo limite - anzi, questa limitatezza. Il Sesto sarebbe stata la sua casa, la casa delle mezze cartucce incapaci di rendersi utili.

Con un grande sforzo riesco a non strappare a morsi la mano del compare quando me la posa sulla spalla, né mi sottraggo. «Sei solo stanco. Non hai nemmeno mangiato oggi, e Pirrus ti ha sentito muoverti nel sonno. Hai bisogno di avere più fiducia in te stesso, o non riuscirai manco quello in cui siamo bravi.» Inspiro profondamente, trattengo il respiro contando fino a dieci, quindi espiro, immaginando di star esalando fuoco per bruciare quello sguardo commiserevole via dal suo viso. «Non so. Siamo effettivamente bravi?» lancio un'occhiata all'emblema di Selene. «Chi te lo dice, qualcuno nell'Oltrevelo?» E Yarin rimane interdetto l'attacco, ma non sembra adirarsi e invece carezza l'anello esterno del medaglione con l'indice fissando un punto imprecisato alle mie spalle. Dopo un po' rimette il simbolo dentro la camicia e sospira, il bastardo, come se stesse parlando ad un imbecille e dovesse misurare le parole per farsi capire.

«Nessuno 'dice' nulla, Gideon. So solo però che nel momento in cui siamo in balia di voci che continuano a parlare nella nostra testa...serve un punto di riferimento. Qualcuno, qualcosa, di più grande di noi, che funga da ancora. Un muro da poter mettere fra te e le voci, e potercisi appoggiare sopra per prendere respiro.» Sbuffo. «Basta con questa storia. Non mi importa nulla dell'Oltrevelo o di quello che Selene, Eiua o che so io faccia o non faccia quando non ci sarò più. Mi importa di quel cazzo di generatore e di essere...di essere...» «...essere che?» «Non lo so, Yarin, ok? Non lo so.» Stavolta ho decisamente attirato più sguardi fra i passanti con l'ultima sfuriata, ed è la volta buona che nuovamente mi imbuco nel magazzino, seguito da Yarin che mi illumina i passi con l'eterite quanto basta per non inciampare sulla borsa degli attrezzi. Solo quello ci manca. «Non ci riuscirai. Ascoltami-» Una mano mi tocca la spalla e son lì lì per scrollarmela, ma il tocco è pesante e stavolta la presa diventa morsa strappandomi un sussulto. «Prenditi una pausa. Me ne occupo io, e tu sbollisci qualunque cazzata tu abbia in mente. Intesi?» Che faccio, dico di no? Riesco già a figurarmi lui che mi scosta con la forza, quel bestione. Deve avere almeno qualche goccia di sangue d'orco, sennò non si spiega. Mi prendo un attimo per controbattere, ma la lingua non ne vuole sapere di trovare qualcosa di sagace, o anche solo un insulto abbastanza forte da esprimere quello che sento.

Gli faccio spazio per lavorare sul marchingegno facendogli luce con la pietra luminescente, le spalle su una colonna; vorrei cercare di capire che sta provando, si sa mai che cavolo fa se non sto attento e mi rovina il lavoraccio che avevo fatto, ma non ci riesco: più cerco di guardare, più mi irrita ogni gesto che fa, ogni momento che si ferma ad osservare quello che ho passato gli ultimi minuti ad esaminare - erano parsi giorni, con il suo cazzo di sguardo sulla nuca...se mi stava persino guardando. Che mi guardasse o meno, ecco - è un lasso di tempo insopportabile. Momenti in cui vorrei rimbeccarlo e dirgli "ho già fatto", "così non funziona", ed è un perpetuo avvelenarmi che non mi dà pace.

Alla fine chiudo gli occhi, e intreccio le dita come non avevo mai fatto, ma che avevo visto fare in segno di supplica o in segno di meditazione da parte degli idomeani incapaci di scrollarsi quel brutto vizio di dosso. Ho smesso di pensare per un attimo, atteso che le fiamme cocenti smettessero di arrostire il mio viso e il mio corpo, e tutto si acquieta. Persino il clicchettare delle varie chiavi di Yarin diviene gradualmente distante, un qualcosa di a malapena udibile che riecheggiava nelle pareti del creato. Non era sparito, però: dava ritmo e forma al pulsare dei pensieri, e man mano tutto quanto è scivolato come se in un imbuto in un fiume di colori e vibrazioni prive di concretezza. Non aprendo gli occhi ho comunque la distinta sensazione che il magazzino si sia espanso oltre l'orizzonte, tanto che a cercarne le pareti finisco per perdere la cognizione di spazio e tempo; un vuoto infinito in cui niente veniva né se ne andava, ed intrappolato in quell'eterno nulla, io ero lì. Proprio lì; anche se non ero granché sicuro di cosa quel fosse. Il respiro fugge dalle labbra con lentezza infinitesimale senza produrre suono, ed immagino che sia brina come uno di quei draghi di ghiaccio delle favole, e sotto le palpebre riesco a vedere la nube di argento e diamante che si spegne lentamente nel cosmico niente. Potrei essere nell'Oltrevelo, potrei star sognando. Ma so di essere ancora , quando potrei essere in quel magazzino. Perché non lo sono? Quasi lo avevo dimenticato - quasi. Quello stupidissimo affare difettoso.

Faccio qualche passo in avanti in quel vuoto, vedo i miei passi riecheggiare e spedire onde concentriche che si spandono per l'aria impalpabile (v'è aria? Serve respirare? Mi fermo un attimo e mi pongo il quesito, preoccupato, per poi scuotere titubante il capo), e alzo il capo verso quello che credo sia l'alto, il soffitto, il culmine di quella stanza che non poteva assolutamente trovarsi su Atea. Perché cercando gli déi non posso sperare certo di trovarli in terra, non era così? Non dicevano gli idomeani che la loro Eiua era piombata nel sottosuolo, e che il suo consorte fosse sulla luna nera? Chi volevo trovare congiungendo le mani ed esplorando quel pericoloso spazio a cavallo fra i miei pensieri e il mondo sconosciuto dietro il muro bianco, gargantuesca barriera che macchia l'universo buio, che mi impedisce di vedere se c'è altro (se c'è un oltre)? E le mani toccano il muro, e tentano di premere, prima incerte, poi con forza. Ma il muro non si mosse. E ho bussato, bussato fino a vedere le mie mani accartocciate sbriciolarsi, infrangersi come vetro e il mio intero corpo accasciarsi, inconsolabile, e il muro sempre immacolato e immanente, memento di una verità che doveva rimanere celata, un mistero irraggiungibile che nessun macchinario avrebbe potuto mai mettere alla luce. Quella grande, grandissima puttanata che era la fede...quanto patetico deve essere lo spirito per affidarsi così tanto a qualcosa che non può vedere? Percepire? Tangere? Quanto frustrato può essere il mondo ai propri fallimenti per cercare soddisfazione e gratitudine per qualcosa di improbabile, anzi, di incomprovabile? A pensare che ci fosse qualcuno dietro quel muro ad ascoltare, o persino che quella flebilissima voce riuscisse a raggiungere, o che pur potendola udire, vi scaturisse anche solo una ancor più flebile scintilla d'interesse nel portare benessere a quelle creature così caotiche, così egoiste, così inutilmente sciocche?

Quando riapro gli occhi sono ancora nel mezzo di quel vortice nero di rabbia, destato da un rumore di metallo sfregato e il sentore di etere sprigionato dai meccanismi. Yarin era indietreggiato di qualche palmo, massaggiandosi la guancia lì dove un lampo era balenato praticamente in viso. Se non si ostinasse come un imbecille ad andare sul posto di lavoro a viso scoperto e non indossare occhiali protettivi e una mascherina, come i capisquadra ripetono alla nausea, non incorrerebbe in questi rischi - ma io e gli altri ci siamo stancati di farglielo notare. Ben gli sta, vorrei dirgli, ma qualcosa cattura la mia attenzione. «Fermo qui» mormoro prendendo la chiave che ha fatto cadere, e guardo la piccola nuvoletta di fumo e vapore che spira fra uno degli ingranaggi. Perfettamente incuneato in uno dei circuiti eterici, nelle ombre di due rotelline belle spesse, una vite fuori posto sfrigola rilucendo appena: il compagno doveva aver provato ad attivare la macchina una volta rimontata, non rendendosi conto dell'oggetto ad ostruire il flusso d'energia. Attivare i macchinari magici senza avere la certezza che si sia risolto il problema è una delle peggiori cose da fare, nonché una delle ragioni per cui noi del Terzo siamo mandati.

Disattivato nuovamente il macchinario, estraggo la vite con una pinza. «A volte basta così poco per inceppare queste schifezze» borbotto sovrappensiero, più a me stesso che non al collega. «Già. Stai un po' meglio?» No, vorrei dire. Non mi tremano più le mani dal nervosismo, vero, e avevo appena capito il problema di base. Bene? Ora non esageriamo. «Questo coso va comunque smontato di nuovo, la vite deve venire da qualche parte.» Il suo grugnito frustrato accompagna il mio sospiro all'osservare gli schizzi miei a confronto con quelli del progetto originale. Prendo un sorso fresco dalla borraccia, quindi ritorno al lavoro.



SPECCHIETTO RIASSUNTIVO
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GIDEON KATARINA BASAJAUN

NOTE:
Una volta, ho congiunto le mani, chiuso gli occhi e guardato dentro me stesso. Quando il buio ha iniziato ad avviluppare i miei pensieri e i colori del mondo si sono spenti, smettendo di abbagliarmi una luce distante si è accesa. Trepidante mi sono avvicinato, credendo di starmi approcciando agli déi. Poi ho guardato con più attenzione, e la luce è divenuta un fuoco roboante che mi ha arso vivo. E capii che guardando dentro me stesso non avevo trovato una divinità; bensì un calderone di rabbia. Quella volta seppi di essere solo contro me stesso.




Edited by ~Coldest.Heaven - 19/4/2020, 18:57
 
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