Moontide - Forum GdR fantasy

Sandbox: Caltrisia, Terra Bruciata

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view post Posted on 30/4/2020, 23:20
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what a thrill

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BSi2UFP

Quest Sandbox
Caltrisia, Terra Bruciata

Percorsi narrativi

Località: Rinascita

1a ~ Rinascita: la marea nera ~ un misterioso ordine di cavalieri neri si è fatto strada tra le rovine di Caltrisia, ora chiamata Rinascita. Con indiscriminata violenza hanno sterminato gran parte dei criminali che si nascondevano qui, instaurando il loro regno di silenzio e minaccia. Tutti coloro che si trovano tra le strade cercano di nascondersi dalla loro vigilanza, ma non è facile. Chi sono e cosa vogliono?

2a ~ Harlock: guerra civile ~ alcune delle bande criminali di Rinascita che prima si contendevano il potere tra le rovine si sono unite per uno scontro finale con i cavalieri neri. Un prominente leader tra questi criminali, il giovane e ambizioso Harlock, sta reclutando tutti coloro abbastanza coraggiosi o incoscienti in vista della prossima battaglia. (Questo percorso rimarrà sempre aperto)

3a ~ Rinascita: il Maniero Spezzato ~ non tutti si dimostrano ostili verso i nuovi invasori di Caltrisia, riconoscendo ai cavalieri neri il merito di aver riportato una parvenza d'ordine nella città. Molti di loro si fanno strada verso il vecchio castello per unirsi a questo ordine, sperando che possano realizzare i loro desideri di vendetta verso Wye, Idomea o il mondo intero.

4a ~ Rinascita: lo spettro ~ girano voci di un'essere infuocato che si aleggia silenziosamente tra le rovine durante la notte. Questa creatura serpeggia tra i vicoli, inghiottendo chiunque incontri sul suo cammino. Non è così strano vedere jin del fuoco dare sfogo ai loro più bassi impulsi qui, strozzati come sono dalla coltre di rimpianti e violenza, eppure questa volta sembra esserci qualcosa di più.

5a ~ ???: il segreto ~ un vecchio zoppica tra le rovine sorreggendosi sul suo fido bastone. Un mendicante o un veterano, un anonimo disgraziato, un'altra vittima della tragedia di Caltrisia. Eppure un cavaliere nero gli si avvicina con l'intenzione di prenderlo prigioniero. Le sue urla disperate attirano l'attenzione. Lo aiuterai? (Questo percorso non può essere scelto come giocata di introduzione)

Località: Lamento del fuoco

1b ~ Vinci Lacor: la vera minaccia ~ il santuario eretto da jin pellegrini per commemorare gli inestinguibili fuochi di Caltrisia è stato strappato dalla terra e distrutto da una forza soprannaturale. L'arcidiacono selenico Vinci Lacor ha raccolto una squadra di suoi compatrioti, valorosi caltrisiani e mercenari per indagare sull'accaduto. (Possibilità di accedere alla fazione: Regno di Idomea)

2b ~ Foèn: il vento di fuoco ~ l'Oracolo dei Figli delle Statue Rana'hid ha avuto una sinistra rivelazione dagli Spiriti scomparsi. Da Astralea ha mandato uno dei suoi emissari, Foèn il Maestrale e un altro volontario per trovare risposta dietro allo squilibrio astrale di cui parlano i Grandi Spiriti. (Possibilità di accedere alla fazione: Figli delle Statue)

Località: Sarasamsa

1c ~ Sarasamsa: la danza di sangue ~ questo anonimo villaggio locato nella punta settentrionale della regione è diventato il centro di una sinistra macchinazione. Un culto di fanatici si è qui riunito per dare sfogo alla propria depravazione, sterminando tutti gli abitanti e offrendoli in sacrificio alla Dea. Tutt'attorno i morti sono emersi dalle ceneri, terrorizzando le popolazioni vicine e disturbando le rotte commerciali.

2c ~ Calaquir: affari difficili ~ il mercante Calaquir, un personaggio peculiare proveniente dal profondo sud, ha bisogno di aiuto per attraversare la regione. Per raggiungere lo scopo assolda un manipolo di mercenari, ma proprio mentre sta percorrendo le strade attorno a Sarasamsa scoppia il pandemonio e la sua carovana viene attaccata da un'orda di non-morti.

3c ~ Jivanmukta: corrompere i corrotti ~ un'anziano sciamano di nome Jivanmukta pianifica di recarsi a Sarasamsa per offrire un accordo ai cultisti depravati. L'anziano e un suo mercenario si mettono in marcia da Rinascita per raggiungere il villaggio maledetto. (Una volta selezionato questo percorso 4c non sarà più disponibile. Possibilità di entrare nella fazione: Mangiasegreti)

4c ~ Dantalion: corrompere i corrotti ~ Dantalion indossa i panni di Jivanmukta e si reca a Sarasamsa insieme ad uno dei suoi mangiasegreti. Il suo obbiettivo è quello di fare una proposta ai cultisti del luogo. (Una volta selezionato questo percorso 3c non sarà più disponibile. Selezionabile solo da un membro dei Mangiasegreti)

Percorsi speciali

Percorso personalizzato ~ è possibile contattare uno staffer o un gestore per organizzare privatamente un percorso personalizzato.


[Link al bando quest]

 
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view post Posted on 6/5/2020, 17:42
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Il tempo è la sostanza di cui sono fatto.

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5a ~ ???: il segreto



Era fermo, piantato davanti una pesante porta in legno scuro in attesa che venisse fatto accomodare.
Non poche volte, durante le sue visite a Idomea, aveva ammirato le statue delle eroine gemelle Eos e Selene sul Ponte delle Sorelle, ma mai aveva pensato di poterlo attraversare. Così, meno di un’ora prima, quando camminando su quelle pietre rosse aveva lasciato cadere lo sguardo in fondo al baratro sotto di lui, gli era sembrato di respirare un’aria diversa, come se stesse entrando in un mondo distante centinaia di chilometri da quello da cui proveniva. Eppure, a separare la parte bassa della città da quella alta, c’era solo quel ponte. Sentiva un profumo diverso aumentare a ogni passo, come se i capolavori artistici o il Palazzo Reale nobilitassero perfino l’aria; non il caos dei fedeli in pellegrinaggio al Duomo, non il vociare dei mercanti né la puzza del bestiame, la città alta esisteva in una bolla di pace e perfezione. Lui, con l’armatura riparata al meglio dopo l’incidente con il Drago, la barba a malapena curata e l’aria più di un mercenario che di un eroe, era del tutto fuori luogo.
Inspirò profondamente, due guardie l’avevano scortato fin lì e ora sentiva il cuore accelerare i battiti senza un reale motivo. Si massaggiò la ferita che, ancora non del tutto guarita, pizzicava a contatto con la cotta di maglia, e si lasciò sfuggire una smorfia di fastidio quando la porta si aprì lasciando che ne uscisse un uomo in armatura pesante.
La Prima Paladina ti riceve.
Un cenno della testa da parte di Davorin, che senza dire altro entrò in quella che aveva tutta l’aria di essere una specie di Sala della Guerra: cinque enormi finestre ad arco, tutte su una parete, illuminavano completamente la stanza di quel bagliore rossastro tipico della luce che si riflette sulla rossa roccia idomeana, al centro, poggiato su un tappeto con i colori del Regno, un pesante tavolo scuro finemente intagliato. Lì appoggiata Nike lo aspettava dandogli le spalle.
Davorin Trannyth, lieta di vedere che la ferita sia guarita.
Non sembra così felice, non penso abbia mandato giù il fatto che siamo intervenuti nella cerimonia. Gli fece eco Azazel, ma Davorin lo ignorò.
Grazie a voi mia Signora, senza le vostre cure tempest…
Non sono la Regina, possiamo evitare le formalità. Disse voltandosi verso di lui. Niente inchini, niente mia Signora, sono Nike.
Il guerriero piegò ancora la testa in un muto ringraziamento, notando solo in quel momento che la Paladina non indossava un’armatura ma solo un abito leggero che lasciava intuire le forme generose, con i capelli corvini e mossi che le cadevano fin oltre il seno.
Non ricordo di aver mai incrociato una donna altrettanto bella. Lo stuzzicò il Jin, ridacchiandogli nella mente.
Avvicinati. Lo invitò con un gesto della mano, tornando a studiare il tavolo. La Regina Alma ti ha dato l’opportunità di entrare a far parte del nostro esercito. Perché hai accettato?
Era stato chiamato per quello?
Devo molto al Regno di Idomea. Sono nato e cresciuto in queste terre, credo sia giusto tentare di ripagare il mio debito quando me ne viene data la possibilità.
Giusto. Sussurrò di rimando, come ragionando su quella singola parola, quando Davorin le era ormai accanto D'altronde immagino non siate rimasti in molti a poter dire di essere nati a Caltrisia.
Immagino di no.
Il guerriero sorrise, evitando di chiedersi come Nike avesse fatto a scoprirlo. Anzi si fermò a osservare quello che si era dimostrato non essere un semplice tavolo, ma una mappa intagliata dell’intero continente di Atea. Riconobbe Idomea con il Palazzo Reale, il Duomo e il Solco di Sigerico, poi Oralia e l’Oltraggio, i Monti dell’Iride a nord con le foreste del Vaincrun, la Desolazione e le cupole di Sidonia a sud. Molti posti non li aveva mai visitati, e probabilmente non l’avrebbe mai fatto.
È per questo che non hai accettato la proposta del Maresciallo Lathi?
Davorin la guardò, ma lo sguardo della Paladina era fisso sulla rappresentazione tridimensionale dell’Oltraggio, proprio davanti a lei.
Anche. L’Alleanza di Wye non è mai stata un’opzione.
Il ricordo dell’Epsilon gli attraversò la mente, nitido come se non fossero passati dieci anni ma solo pochi giorni. Aveva deciso di non mentire a Nike, sarebbe stato stupido e forse anche inutile, visto che sembrava già aspettarsi le risposte che Davorin le dava. Lei tagliò corto cambiando discorso, quasi non desse importanza a quel preambolo.
Comunque sia non è per questo che ti ho chiamato. Non voglio nasconderti che non hai la mia piena fiducia, forse non ne hai nemmeno un po’, nonostante molti qui ti chiamino… com'è che ti chiamano?
Finalmente lo guardò negli occhi, e Davorin sentì tutto il peso di quello sguardo, desiderando quasi che tornasse sulla mappa.
L’Eroe dell’Incoronazione. Rispose non senza imbarazzo.
Nike rise appena, sospirando.
Beh, Eroe dell’Incoronazione, avrai modo di dimostrarti un uomo anche oltre questi titoli vuoti. Sei più stato a Caltrisia dopo la sua distruzione?
L’uomo scosse la testa facendo segno di no.
Lo farai. Abbiamo ricevuto un rapporto dall'Arcidiacono Vinci Lacor, ci informa che la situazione dopo l’incoronazione della Regina Alma è precipitata: sono dieci anni che tra le rovine di Caltrisia si aggirano i Jin, ma ora un gruppo di Cavalieri Neri sta dettando legge in quelle terre e non sappiamo a cosa mirino. Forse vogliono instaurare il culto di una nuova Dea, forse vogliono reclamare una qualche forma di indipendenza, in ogni caso noi dobbiamo intervenire prima che sia Oralia ad allungare i suoi artigli su quelle terre.
Davorin, fino a quel momento ammutolito dall'idea di tornare a Caltrisia, non aveva staccato un secondo lo sguardo dalla Paladina.
Qual è il mio compito?
Dovrai capire chi sono e cosa vogliono questi Cavalieri, e proteggere la popolazione nel mentre.
Ma, Davorin, niente gesti stupidi come quelli dell’ultima volta; partirai insieme alle nostre truppe ma poi sarai solo, vi dividerete sul confine della regione perché gli altri andranno in supporto all'Arcidiacono Lacor mentre tu proseguirai verso Caltrisia.

Il guerriero annuì energicamente.
Non ti deluderò.
Me lo auguro. Preparati, parti tra un’ora.

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Come qualche ora prima Davorin era immobile, non davanti una porta chiusa ma un cumulo di cenere nera e lo scheletro di quella che una volta doveva essere una casa. Nemmeno le piante avevano invaso quel luogo di morte e distruzione nonostante fossero già passati dieci anni. Lui e Azazel avevano cavalcato attraverso i campi ancora fumanti, ascoltando il lamento di chi ancora provava a vivere una parvenza di normalità, separandosi poi senza troppe cerimonie da quei soldati di Idomea che l’avevano accompagnato, raggiungendo la città quando la giornata volgeva ormai alla sera.
Rinascita. Credi sia un nome appropriato?
Credo che nemmeno una fenice riuscirebbe a risorgere da queste ceneri.
Piombò di nuovo il silenzio tra i due, varcarono la soglia di casa loro cercando con la memoria di ricostruire gli ambienti. Piansero sedendosi contro un ammasso di legno scurito e rocce. Dieci anni, dieci anni lontani da una casa che era evidente non esistesse più.
Lathi ci ha tolto tutto.
Singhiozzò l’uomo, cercando di asciugarsi le lacrime ma finendo solo con lo sporcarsi il viso di fuliggine.
Ha ammazzato nostro padre.
E noi ammazzeremo lui.
Anche la voce del Jin era rotta dall'emozione, graffiata dalla rabbia. Ci volessero anche altri dieci anni. Queste ceneri non si spegneranno mai, noi non ci fermeremo mai, ora piangiamo ma rideremo sul cadavere del Bianco prima o poi.
Davorin annuì, rialzandosi e tentando di pulirsi l’armatura ottenendo solo l’effetto opposto. Si guardò intorno in quella zona della vecchia Caltrisia che ancora non era stata raggiunta dall'idea di ricostruzione dei nuovi abitanti, sospirando.
Muoviamoci, il Sole sta tramontando e dobbiamo ancora trovare un modo per avvicinare i Cavalieri Neri.
Sì, cerchiamo anche un posto riparato dove passare la notte; non penso torneremo a Idomea prima di domani.
Già avevano iniziato a camminare, in una sorta di macabra passeggiata tra le rovine, attenti a qualsiasi movimento tra le ombre che potesse tradire la presenza di qualcun altro oltre loro.
Sai, un giorno vorrei andare al Lamento del Fuoco. Azzardò Azazel.
Allora un giorno ci andremo. Rispose con un sorriso il fratello, quando un urlo strozzato lo spinse a ripararsi dietro alcune macerie. Veniva da laggiù.
Davorin, Nike ha detto niente eroismi.
Sì, ma ha detto anche di proteggere la popolazione, quindi vediamo di cosa si tratta e se riusciamo a intervenire.
Procedendo basso Davorin continuò ad avanzare tra ciò che era rimasto dei vecchi vicoli, nascondendosi di volta in volta dietro pareti di roccia sventrate, o cumuli di travi annerite dal fuoco crollate una sull'altra, finché dopo poco raggiunse l’origine del lamento: un vecchio veniva trascinato lungo la strada da quello che doveva essere un Cavaliere Nero. L’armatura dello stesso colore del mantello lacero, un cappuccio anch'esso nero nascondeva il volto ora che il Sole era sparito oltre l’orizzonte e una lunga spada al fianco sinistro. Rideva sguaiatamente tirando per la veste e per i capelli bianchi l’uomo a terra, che continuava a piangere cercando con le dita storte un qualche appiglio tra la sabbia per provare a opporre un’evidentemente inutile resistenza.
Ci saranno almeno cinque metri, ti vedrà.
Il Cavaliere gli dava le spalle, e sì forse avrebbe sentito Davorin lanciarglisi contro ma era improbabile facesse in tempo a lasciare il vecchio, estrarre la spada e difendersi.
Lentamente, restando accovacciato, il guerriero estrasse Selene e tentando di sfruttare l’effetto sorpresa scattò fuori dall'ombra cercando di coprire la distanza dal bersaglio il più velocemente possibile. Arrivato a tiro sfruttò l’impeto della corsa e il peso di tutto il corpo per lanciare un fendente circolare parallelo al terreno, impugnando l’elsa con entrambe le mani e mirando alla guancia dell’uomo in nero per evitare che gli spallacci o un rinforzo dell’armatura all'altezza del collo impedissero al colpo di decapitarlo.



Energia: 100 -10 =90%
Salute: 100%
Equipaggiamenti: Spada | Armatura | Guanti | Schinieri

CAPACITÀ ATTIVE (Slot: 0/1)
Nessuna Capacità attivata.

GENERATORI ATTIVI
Nessun Generatore attivato.

TECNICHE ATTIVE
Affondo Davorin è in grado di affondare un colpo, a mani nude o con qualsiasi arma bianca, in grado di ferire gravemente l'avversario.
[Pergamena: Consumo Medio, potenza Media, danno Medio]

Riassunto:Spero di aver reso decentemente una Nike forse sospettosa, sicuramente ancora infastidita dal fatto che Davorin sia intervenuto durante l'incoronazione. Nella seconda parte della scena, quella che si svolge a Caltrisia, dopo aver fatto tappa alle macerie della sua vecchia casa Davorin raggiunge il vecchio che urla e, sperando di riuscire a sfruttare l'effetto sorpresa, assalta dall'ombra il Cavaliere Nero. L'attacco ha solo potenza Media, ma anche nella speranza possa causare più danni visto l'assalto improvviso e il punto mirato ho evitato di consumare il secondo slot insieme a energie che potrebbero rivelarsi preziose :zizi:
 
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view post Posted on 9/5/2020, 18:22
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4a ~ Rinascita: lo spettro


A passi lunghi, lenti, procede questa parata di uomini abbaglianti. Nel bianco si perdono le loro membra candide, si confonde tra la brina la loro chioma canuta, si perdono. E per non perdersi ulteriormente, camminano come nuvole in banco, procedono ammutoliti sul manto soffice. In quattro portano il feretro, nero e severo, ma non aguzzo: caldo, rispettoso. In quattro lo portano, e i due più indietro sono illustri nomi di amanti tristi. Sulla destra c'è lui, alto e di spalle larghe, vestito di sete e profumato di oli di altre terre, triste, ma mai pentito. La sua lunga treccia canuta ondeggia piano nel vento, tenuta buona dal dovuto rispetto ad un antico amore; il suo sguardo rimane al suo passo e a chi ha davanti, non guarda mai accanto a sé. Alla sinistra, proprio al suo fianco, c'è lei che dorme nel feretro, ma più bella di quanto ogni trucco potesse mai farla, più severa che mai. I lunghi capelli di un grigiore argentato sembrano non farsi mai tentare dal vento, il suo sguardo rimane fisso sui due che antistanti portano la sua bara, non guarda mai accanto a sé.
In quattro lo portano, e i primi due in fila sono ragazzi snelli, così candidi da brillare anche in quello spazio vuotissimo e accecante. Alla destra vi è il figlio minore: si riconosce perché ha gli occhi viziati, i capelli lunghi e abiti di seconda mano, ma tirati a lucido. Piange con dignità, senza sforzo, ma con grande pace, non alza mai gli occhi oltre le spalle di chi lo precede. Alla sinistra vi è il maggiore dei due: Ha il naso appuntito, i capelli ben curati e le spalle curve, come stesse portando da solo il peso di quella bara. Cammina a fatica e non piange, ansima, piegato sulle ginocchia, alza lo sguardo solo per sottolineare tutta la sua rabbia. È un dolce ricordo che non è mai accaduto.

Chi piange sulla tomba del tiranno? Chi piange sulla tomba dell'ingiusto? Chi chiede di chi sia la colpa? E cosa vede? Cosa vede? Cosa vede?


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Questa terra è come il mio corpo, non potevi che condurmi qui. Questo viaggio è perfetta rappresentanza della mia metamorfosi: dal candore dell'Andrasva, la sua purezza incontaminata e glaciale, fino a una terra nera scottata dalla volontà degli uomini. Una metafora perfetta della mia natura e del mio cammino fino al tuo altare, del viaggio da Mitride a Batra. Non so molto di questo mondo, ma persino io so di quanto accadde a Caltrisia. Quando la nave volante oscurò il cielo io ero solo un bambino, ma le sue luci di morte arrivarono fino al dorso di Zena, illuminarono a giorno la notte come se il sole, per la prima volta, nascesse dal basso. Quello strumento straordinario ha lasciato qui una cicatrice insanabile, una terra arsa da cui non nasce nulla, tranne le spine. Volevo vederlo, volevo controllare con i miei occhi stessi di cosa fosse capace la famosa nave nel cielo, e ora non ho dubbi: non è una creatura degli Dei quella che fungerà al mio scopo, ma un dono dell'odio umano, un mostro di legno e ferro. Non può essere diversamente.
Ora mi muovo di mio senno, ma seguo la tua scia. Mi sta bene, non saprei dove andare se non fossi un cane al guinzaglio, ti seguo con piacere. Le mie mani irrequiete sembrano aver finalmente avuto tanto sazio da poter fingermi uno di loro, un Dio sporco. Corrucciato come tutte le facce che incontro sui vialoni sterrati, non meno orribile dei loro ricordi, procedo tra i palmenti di terra arsa e cenere sterile, rovine di casolari e modeste ville, verso quella che sembra essere la cicatrice purulenta di un'antica città. Caltrisia, o come venne chiamata da allora nelle leggende Zenite, Sedy't baarnt, colei che bruciò.
Un arco di pietra scurita si staglia oltre il vialone ad accogliere di malo modo i pellegrini all'altare della guerra, un arco antico, tenuto appeso al cielo più dalla volontà collettiva che dalle sue fondamenta scottate. E mentre procedo, attorno a me sento gli sguardi. Sento ognuno di quegli occhi pesanti guardarmi e crivellare ogni centimetro della mia pelle scura. Non dovrebbe più stupirmi, ma continua a farlo. Sono uno stendardo sporco che marcia, sporco del suo sangue e di quello di chissà chi, chissà cosa. Li sento, i mendicanti e i cacciatori di taglie, i fuggiaschi e i vecchi malinconici, tutti con uno sguardo differente: chi di odio, chi di astio, chi di paura triste e rafferma. Ma tra tutti gli sguardi ce n'è uno che mi alita sul collo da quando ho messo piede oltre la radura morta nel viale. Uno che mi annusa, che mi tocca, che mi assaggia ad ogni passo e sta annotando quanto peso, di che sono fatto, che sapore hanno i miei pensieri. Appartiene a lui, ne sono certo.

Proprio sotto l'arco, bardato di una tunica riccamente drappeggiata dai colori variopinti, stava eretto un uomo scuro, color della terra bruciata ai suoi piedi. Lungo come le ombre all'alba e al tramonto, lunghi i suoi capelli cerulei oltre le spalle. Incastrata nella terra come un'ultima beffa, la sua spada di falda larga pomposa, un artefatto più cerimoniale che altro, come gli unici che si conservarono a Zena dopo la caduta di Batra. Quel tipo, anche senza incrociare mai la mia figura con i suoi occhi scarlatti, mi sta scrutando dallo stesso attimo in cui mi sono reso visibile. Sta guardando dentro, sta frugando ovunque, sta guardando anche lui. In pochi passi gli sono distante solo qualche metro, mentre il suo sguardo finge di non essersi già puntato addosso a me. Alzo gli occhi e la mia posa ingobbita si raddrizza quanto basta a imporre i miei occhi sul suo corpo fino a catturarne l'attenzione.

Dovrei sentirmi violato, ma stranamente, sono solo felice di avere qualcuno con cui parlare.


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C A L T R I S I A

I will haunt you, hunt you down during the night
You, you will regret you ever stepped out of line
They, they will beg me, they will cry until you weep
And I, I won't feel sorry, you can believe me,
Can you believe anything?




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Arrokoth
--Romolo
----------------------------------------------



"Riesco a sentire i tuoi occhi addosso da oltre la radura. Cosa sei venuto a cercare?"

Voce di fiamma smorzata, le uniche parole di garbo misurato che quella bocca da fuoco riesce ormai a produrre, inadatta a una preghiera o a un giuramento sincero. Arrokoth ora fissa l'uomo esotico con lo sguardo furioso di un moccioso fiero. Lui finalmente ricambia il suo sguardo assiduo, non più come una manifestazione magica, ma come un semplice gioco di specchi. Si incrociano a mezz'aria le fiamme dei loro occhi tanto diversi, sotto un unico cielo tiranno.

"Sono qui perché un essere potente si nasconde tra queste rovine, ho intenzione di trovarlo."

Con un tono sagace e sicuro di sé l'uomo lungo risponde quasi indispettito, evadendo a piè pari la domanda dello Zenita per focalizzarsi sul motivo della sua visita, qualcosa per cui persino Arrokoth muove le orecchie.

"Tu non sei in grado di percepirlo, non hai le mie capacità. Non temere però, nessuno può compararsi a me."

E per tutta risposta, Arrokoth sembra sordo ad ogni provocazione velata o meno che sia, interamente dedito a sapere altro della presenza che si cela tra le rovine crucciate dal fuoco. O forse è il suo sorriso, così sicuro e accomodante, che lo frena dal rispondere con violenza.

"Tuttavia, ammetto che sei una persona forte. Hai attirato la mia attenzione fin da quando ti ho sentito, per questo ho preferito aspettarti."

Non muove un muscolo, non si sorprende oltre di quel che aveva già sancito vero, ed è così raro sorprendersi. Si limita a ghignare ricambiando il suo sorriso con un altro ben meno allenato, e sollevando gli occhi al cielo recita un'omelia antichissima, malinconica.

“È un pazzo mondo, bisogna dare per vera l'ipotesi più folle”

Muove passi ferali verso l'omone stagliato nelle ultime ore del giorno, annusa l'aria intorno a lui con la lingua a fior di labbra, cerca di farsi bestia, recita. Avvicinatosi tanto da sentire il calore della sua pelle di essere vivente, la smania, o la recita, sono andate troppo oltre: la sua mancina vibra di rosso vermiglio e si allunga in una lama dritta a filo doppio, il suo corpo non riesce a trattenere un fendente verso il fianco di quel gioco perfetto, ne pregusta il sangue. Ma l'uomo, in grazia, compie un movimento danzante verso la sua immensa spada, disancorandola dal suolo e frapponendola alla scudisciata, proprio a qualche centimetro dal punto di impatto.

"Cosa stai cercando di fare?"

Il suo sguardo si fa severo. Arrokoth, invece, non riesce a trattenere uno schizzo di risata.

"Io non ho le tue abilità, pensavo avessimo assodato questo punto"

Un comodo eufemismo per giustificare certi folli istinti che brulicano tra gli occhi ed il cuore dell'Ouranide buio, o forse una mezza verità. Ma l'umano la prende bene: sospira, sorride; accetta di essere stato rimborsato con la sua stessa moneta.

"Non c'è bisogno di fare cose del genere, io non mento, non è nella mia natura".

La bugia più grande di tutte. Mentre i due metalli diversi per colore e forma cozzano ancora in scintille a pioggia, Arrokoth prova a suo modo a sorridere senza sembrare un demone oltreumano. Fallisce. Ritrae la lama che si rinfodera nella figura grottesca della sua mano d'arme, la osserva per un attimo.

“Accetterei volentieri una mano d'aiuto, quella cosa mi interessa

“Il tuo aiuto è benvenuto”

Per un attimo si scoprono simili nelle loro volontà di ferro e nella fierezza, anche nella nera vergogna, che porta entrambi a non poter cedere all'idea di star ricevendo aiuto da chicchessia.

“Il mio nome è Romolo, qual è il tuo?”



“Il mio nome...”

Gli occhi, quando penso al mio nome e a ciò che ne resta, vagano sempre a te, al cielo. Mi hai ripetuto mille volte i suoi motivi, e che dietro il suo suono duro e spigoloso, c'è un intento nobile: Arrokoth, separazione, distanza. Un tempo questo nome descriveva il mio indirizzo di vita, la mia stella, la colpa che avrei espiato per il mondo, e la mia separazione dal mondo e dalla sua colpa. Ma ora rappresenta la distanza da tutto ciò che sono stato, fisica e spirituale, dai luoghi della mia infanzia ingabbiata e dal mio indirizzo di vita. Arrokoth.

"puoi chiamarmi Arrokoth, suppongo"

Un silenzio desertico percuote la scena per qualche attimo, spezzato unicamente dal soffiare del velo di sabbia. Una mano si posa sulla spalla, e il calore forte calore di un essere umano irrompe nel miasma cognitivo del Batride, lo sorprende, davvero, per un solo attimo.

"Bene Arrakoth, è un piacere fare la tua conoscenza"

Tutt'intorno c'è una platea di sguardi sospettosi, mani che frugano nelle tasche e afferrano pugnali, bocche che sussurrano parole di sdegno verso i due combattenti che occupano uno dei portali di ingresso dell'un tempo gloriosa Caltrisia.

"Penso sia arrivato il momento di muoversi"

Arrokoth lo guardò indecifrabile, e lo seguì senza una domanda.





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Salute: 150-----------------------------------------Arrokoth---------------------------------------Energia: 50


Slot tecnica utilizzati: 0----------------------------------------------------------------------------------------------- Slot capacità utillizzati: 1


Capacità attive

● Armi cangianti: Le braccia di Arrokoth sono vermiglie e traslucenti, impossibili da definire in una forma. Esse possono mutare in tutti i tipi di armi da mischia, a patto che il guerriero sia in grado di sollevarle, diventando resistenti come l'acciaio comune.


Generatori

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Tecniche utilizzate

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Stato Psicofisico

Curioso, incerto.


Riassunto azioni

Primo post di introduzione che racconta, insieme a quello di Neéro, l'incontro tra Arrokoth e Romolo ad una delle porte di ingresso dell'ei fu Caltrisia, oggi Rinascita. Arrokoth, giunto alle porte di Rinascita in una specie di trance, percepisce l'auspex di Romolo (così come descritto nella sua tecnica), ed inizia un dialogo con lo stesso. I due hanno un diverbio che si appiana nell'interesse comune di cercare questa creatura: Arrokoth riconosce nel potere di percezione dello Scion un valido aiuto, ed entrambi si addentrano tra le rovine della città.


Note e osservazioni

-Tutti i dialoghi sono stati concordati con l'utente Neéro



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Edited by Ulysses BRB - 10/5/2020, 03:06
 
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view post Posted on 12/5/2020, 13:29
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"Vieni nella terra del tradimento, Uomo Vuoto.
Ci attende un bagno di sangue e ho bisogno della tua presenza.
Se ancora desideri il potere che ti offro, raggiungimi nella polvere."


Dantalion: corrompere i corrotti


Garreth aveva il sangue del suo compagno sulla barba. Erano caduti in un'imboscata alle prime case di Rinascita e da lì in poi era stata tutta una rapida vertigine: il capo della scorta, decapitato con l'urlo ancora in gola; il carro trascinato fuori strada dai cavalli imbizzarriti. Morire per un pugno di denari non sarebbe valsa la pena e chi poteva era corso via per salvarsi la pelle. Lui era tra questi. Nella catapecchia dove aveva cercato rifugio una luce sporca trapelava dagli spiragli delle travi, portando con sé l'odore dolce di maiale. Il mercenario aveva le spalle contro la parete, tratteneva il fiato e tendeva le orecchie. Sentì un grido distante, che non poteva appartenere a nessuno della carovana, e quando anche quello fu soffocato pensò di essere solo. Si lasciò cadere sul pavimento, rendendosi conto per la prima volta di un dolore lancinante, e premette la mano sull'addome sibilando a denti stretti. Il guanto s'intrise di rosso, viscoso, e il cuore gli grattò nel petto. Per tenersi aggrappata la testa al collo dovette irrigidirsi e soffiare via l'affanno dalle labbra, tentando un respiro profondo dietro l'altro. Gli sembrò la cosa giusta da fare. Garreth vide la stanza offuscarsi a poco a poco e cominciò a scivolare in un posto lontano e accogliente, così come gli avevano sempre detto che sarebbe stato nei suoi ultimi istanti. Era una sensazione dolce e confortevole. Quando smise di opporre resistenza, si accorse del cadavere che lo osservava con occhi limpidi, gelidi come quelli di uno spettro. Il suo corpo accasciato a terra guardava da una parte, la testa dall'altra: aveva il collo orribilmente spezzato.
- Per la Dea... Come sei ridotto, commentò con il filo di voce che gli restava, e un grugnito. Un istante dopo il cadavere stropicciò le labbra, o forse era stata solo la sua immaginazione. Decise che, dopotutto, chiedere non avrebbe fatto del male a nessuno.
- Sei... Morto?, e una possibilità si fece strada nella sua mente, Mi trovo già nell'oltretomba?
- No, questa volta il cadavere gli rispose, come se fosse una cosa del tutto naturale, Non ancora.
Garreth ebbe un sussulto e tossì. Il sapore del ferro gli riempì ogni angolo della bocca e la testa divenne d'un tratto leggera, leggera. Gli sembrò di perdere i sensi e sognò che il cadavere piegava le braccia, puntava le mani a terra e si alzava a sedere. E poi si stringeva le tempie e strattonava la testa, rimettendo il collo al suo posto con un singolo colpo secco. Era accanto a lui quando rinvenne, tutto intero. Al mercenario non restavano energie per voltarsi, ma lo vide con la coda dell'occhio. Tornò a sognare. Il cadavere gli chiese dei cavalieri neri e lui rispose, anche se non poteva sentire la sua voce, che aveva fatto tutto quel che poteva. Erano in troppi, e troppo forti. Avevano armature annerite dal fuoco e puzzavano di morte. Si soffermò su quell'ultimo pensiero, sentendo le palpebre farsi pesanti, insostenibili. Lo spettro gli prese la testa fra le mani e lo costrinse a voltarsi. Aveva un foro nel mezzo della fronte. Un pozzo al cui interno brulicava qualcosa di argenteo, una bocca, una fila di denti. Il bagliore si dilatò e inghiottì tutto quanto.


QMODsuU

C A L T R I S I A
. . . . . . . . . . . .

Una primavera oscura imperversava nei Campi, con la fuliggine e le braci al posto dell'infiorescenza. Una coltre di cenere ricopriva il suolo dove Gangre camminava, avvolto dentro vesti altrettanto sporche. Si copriva la bocca e il naso con un drappo di cotone, invano: il fumo gli grattava il fondo della gola ad ogni respiro, salvo quando una folata di vento lo colpiva sul viso. Allora poteva sentire voci e odori che, per quanto distanti, viaggiavano senza ostacoli sopra la terra nuda e riarsa. Rinascita. Anche se a molti non piaceva quel verso, l'antica Caltrisia era davvero gravida. Era pesante come il martello che batte sul ferro ancora caldo, a dare forma a storie che vale la pena raccontare. L'esaltato si era trovato proprio lì, dove accadevano le rappresaglie, i furti, le esecuzioni, ma non era giunto il momento di prenderne parte. Seguiva un suo intreccio e si nascondeva nelle retrovie, senza mai incrociare nessuno cui scorresse ancora il sangue nelle vene. Il loro dolore era da tempo andato. Ma il suo demone aveva promesso di dargli una delizia che non poteva rifiutare e, quel giorno, si era lasciato alle spalle gli ultimi tetti traballanti per andare ad incontrarlo. Come gli aveva mostrato nei suoi pensieri, lo trovò appoggiato ad un albero dal tronco secco e contorto. Aveva l'aspetto modesto e incurvato di un vecchio che non aveva mai conosciuto prima, con un mantello che lo ricopriva tutto fuorché il volto. Dalle sue ombre baluginavano due occhi tinti di viola e un terzo ancora, sulla sua fronte. Tra i due, Gangre era il più alto e sembrava anche il più in forze. Folle, un brivido si mosse dietro la sua nuca, drizzandogli i capelli, e gli disse: Ti trovi al cospetto di Dantalion. Anche se tu vorresti credere alle apparenze. Il ronzio corse per tutta la sua spina dorsale e l'uomo si inchinò, piegando meccanicamente il busto finché i suoi occhi non guardarono a terra e la testa non si trovò una spanna sotto al triplice sguardo. Pensando che il suo gesto doveva essere abbastanza eloquente, restò in attesa. Il demone si sollevò faticosamente dal nido che si era costruito sulle radici dell'albero. Si puntò su di un lungo bastone di legno, che sembrava fatto della stessa, antica materia.
- Alzati, gli comandò, e non senza una nota di impazienza nella sua voce anziana, Devi ancora imparare a tagliare i tuoi fili, marionetta. Questa sarà una buona occasione.
Facendogli eco, Gangre abbandonò frettolosamente il suo inchino. Intorno al foro che aveva sulla fronte, il marchio si confondeva con le tracce di sporco e cenere: gliel'aveva dato il demone stesso, quando si era aperto uno spiraglio dentro la sua testa. Era quello il desiderio, il filo che li aveva uniti nel loro patto. Si domandò perché mai Dantalion avrebbe preferito vederlo danzare da solo, ma non osò contraddirlo. Il demone riprese a parlare e lui pendeva dalle sue labbra.
- Questa terra è stata consumata dalle fiamme dieci anni fa. Solo ora nella cenere il bagliore di quella follia si sta rianimando. Con il tuo aiuto, scopriremo la verità dietro alla pazzia che ha spinto questi uomini. Forse scoprirai qualcosa di più sullo spirito umano.
Era una cosa spregevole da dire a uno che, di spirito, mancava del tutto. Per un istante, gli occhi di Gangre scattarono all'indietro e scavarono nei ricordi del viaggio che l'aveva portato a quella terra. Aveva assistito, in passato, alla morte dello spirito e alla sua nascita. Ma non c'era nulla in quegli eventi che gli potesse dire perché lui era stato costruito senza quel prezioso ingranaggio. Ora, tuttavia, ne voleva ancora.
- Oh, ne ho già visto qualche pezzo, stropicciò le labbra in un sorriso e si portò le dita alle tempie, L'ho trovato delizioso.
Dantalion fece sgusciare una mano grigia e raggrinzita dalle ombre del mantello, e gliela porse. Aveva numerosi bracciali dorati al polso, che scintillavano estranei quanto il suo sguardo e tintinnavano ad ogni suo movimento.
- Sei giunto fin qui. Ma la volontà dev'essere tua. Camminerai con me nella polvere?
C'erano due modi in cui Gangre sapeva rispondere a un palmo teso. Dopo qualche momento di esitazione, decise che avrebbe accettato l'invito. Le sue dita si avvolsero intorno alle rughe e persero la strada in quella spirale che solo un tempo impossibile avrebbe potuto tracciare sulla pelle.




Edited by Indovino‚ titubante - 5/12/2020, 11:16 PM
 
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Caltrisia,Terra Bruciata
Harlock: guerra civile - I


Il soldato e il musicista sedevano l’uno di fronte all’altro, senza guardarsi in viso. Il sedile della diligenza che presidiavano, l’ultima di un ragguardevole convoglio di dieci carri, non aveva posto per altri che non fossero il cocchiere, sicché avevano dovuto accomodarsi nel vano merci; non che ci fosse molto da stare comodi: il carro incedeva a singhiozzi, per evitare di abbattersi contro le pietre che affioravano dalla terra scorticata. Ad ogni svolta il vasellame accatastato attorno ai due lanciava lugubri rintocchi; il soldato guardava con apprensione le pile di orci che lo circondavano, puntellando il gomito qui, il piede là, perché non gli franassero addosso e inventando imprecazioni sempre nuove; il musicista sembrava non curarsi della cassa zeppa di ravanelli che gli pendeva sopra la testa e si era spalmato su due sacchi di salgemma, in ascolto: aveva notato che il cozzo dei vasi produceva una gamma di suoni diversi, che si combinavano in modo persino godibile. Il soldato era un mercenario; il musicista faceva solo finta di esserlo, e dalle occhiate sottecchi che il soldato gli rivolgeva credeva si fosse capito. Entrambi erano in viaggio da giorni, ignoravano quanto tempo li separasse dalla prossima sosta e non si sopportavano più.
- Non ti ha nemmeno chiesto se sai combattere, vero? - esordì il soldato. Il musicista sollevò la falda del cappello che portava calato sul viso abbastanza da incontrare i piccoli occhi verdi dell’altro che lo scrutavano, fissi e baluginanti, dall’angolo opposto del vano. - No, infatti- disse, e rimise il cappello in posizione.
- Dev’essere proprio disperato per averti offerto un ingaggio …
- Per averci offerto un ingaggio, volevi dire.
Il soldato fece come se le parole dell’altro fossero solo nuovi fastidiosi scricchiolii che si irradiavano da un punto imprecisato nello spazio.
- … un uomo finito, che ha perso il diritto a esercitare la professione nel Regno perché, che so … avrà pestato i piedi a quello sbagliato … chiude bottega, carica tutto ciò che possiede su una fila di carri, compreso quel fottuto cagnolino, e tenta il tutto e per tutto con un viaggio verso Sidonia…
- Un uomo decisamente finito- farfugliò il musicista. Era sicuro che il soldato in quel momento avesse preso a stringere l’elsa della spada a una mano e mezza che portava alla cintura.
- …certo, per arrivare a sud prima che la roba si guasti bisogna passare da posti in cui nessuno con un po’ di senno vorrebbe capitare. Il mercante ha bisogno di uomini che scortino il carico, ma non ne trova.
- a questo punto entrano in gioco i veri disperati- incalzò il musicista; udì il soldato scalpitare nel suo angolino. Gli rispose una voce bassa e truce.
- Te lo ripeto per l’ultima volta, non paragonarmi a te e a quelli della tua sorta. Non abbiamo niente in comune.
- Come vuoi- sotto il cappello il musicista sorrise - immagino sia una bella macchia sulle tue referenze lavorare con quelli della mia sorta … eh, Capitano di Ventura?
- Proprio così – replicò Dryden, capitano senza seguaci, con una grana tetra nella voce - un parassita che si approfitta di chi non ha più nulla da perdere, che offre ciò che non ha …
- Hai dimenticato “alcolizzato” e “troppo scuro per essere non essere una carogna” - fece l’altro. Dryden non riusciva a intuirne l’espressione, ombreggiata dalle falde del cappello, ma si meravigliò del fatto che un tipo così avesse un orgoglio. Cadde il silenzio, inframmezzato dal cigolio delle ruote che pattinavano sulla terra dura. Il musicista si ricompose e gettò un’occhiata allo scorcio di paesaggio che sfilava sul fondo scoperto della diligenza. Il terreno praticabile, prima compresso tra i fianchi ripidi di due colline, digradava in una convulsa brughiera grigiastra; della strada che un tempo fendeva la campagna non rimanevano che vestigia. Il vecchio cocchiere dopo un cordiale bevuto insieme gli aveva confidato che, prima che Idiomea e l’Alleanza combinassero un casino, superate le colline si poteva scorgere il deserto oltre Caltrisia; ma ora le ceneri che si alzavano dai campi attorno appestavano l’aria e oscuravano l’orizzonte in ogni direzione. Filari di alberi monchi, screziati di nero orlavano i campi.
- L’unica cosa che non riesco a capire è … perché? - il capitano Dryden si scosse e si drizzò in piedi; non aveva nulla del condottiero: né spalle capaci, né braccia nerborute, né il bell’aspetto che tramandano le ballate: era alto, di corporatura esile, con una zazzera nerissima che cominciava a recedere dalla fronte e un viso angoloso e scavato. L’unico dettaglio impressionante dell’uomo erano le mani: grandi e nervose, dalla pelle dura come cuoio; le mani di un macellaio. Il musicista alzò un sopracciglio.
- Perché ti sei proposto per un incarico del genere? D’accordo, i soldi … ma per quello che potremmo passare quando tenteremo di passare per la vecchia Caltrisia nessun compenso in denaro potrebbe essere sufficiente.
- “Potremmo” … “potrebbe” … quanti condizionali.
Gli occhi verdi di Dryden lampeggiarono e quelle sue mani terribili ebbero un guizzo. – Sei davvero così idiota da pensare di aver già in tasca la ricompensa? - sibilò il capitano.
Il musicista non rispose; aveva estratto dagli interstizi della giacca un astuccio di pelle; lo aprì e tirò fuori un’armonica dall’imboccatura tutta consumata. Prese a rigirarsela tra le mani, ammirandone la forma. D’un tratto Dryden ruggì e, con un solo movimento fluido, sfoderò la spada e gli premette la lama contro il collo; il musicista sprofondò nell’intercapedine dei sacchi su cui sedeva, boccheggiando.
- Rispondimi … perché ti sei unito alla carovana? Cosa cerchi? Vuoi sabotarmi? - la foga imporporava le guance solcate del capitano. Prima che l’altro potesse rispondere, una brusca virata della diligenza sbilanciò Dryden. La spada scivolò via dal collo del musicista; con un calcio alla coscia questo spedì il soldato al tappeto e in un istante gli fu sopra. Avvicinò il volto a quello dell’altro finché non riuscì a sentire il suo respiro a fior di pelle e chiese, soffiando come un gatto - Hai mai avuto tanta paura da voler scavare un buco nella terra per infilartici dentro e non uscire mai più?
Una pila di orci collassò. Dryden lo guardò dritto nei piccoli occhi neri, poi annuì. Il musicista sembrava attendersi tutt’altra risposta - Allora non abbiamo più niente da dirci – soggiunse, mollando il capitano. Si chiamava Ashef Traubert ed era un uomo in fuga; anche se nessuno in particolare gli dava la caccia, si spostava di continuo, per dimenticare di non possedere più un’anima di proprietà. Era diretto a sud, dove un discorso attorno ai soldi e alla verità lo aveva convinto a spingersi, e mal tollerava chi voleva a tutti i costi farsi gli affari suoi. Dryden si rintanò nel suo cantuccio e non parlò più; sembrava avesse rivolto lo sguardo a qualcosa dentro di sé. Ad Ashef toccò sgomberare il fondo del carro dai cocci per recuperare l’armonica che aveva perso durante la colluttazione; controllò che fosse tutta intera, la pulì nella stoffa dei calzoni e cominciò a suonare. Note pesanti e strascicate, come la fatica, la vecchiaia e tutte le cose che all’uomo piace scordare. Intanto cantava:

Da qui si vede il fiume
E ad occhi chiusi brucia il sole
In questo mondo
il sorriso non taglia la gola
Ma quando volti le spalle
Sei una persona sola

Nell’ascoltarlo il capitano Dryden pensò che fossero proprio le persone meno probabili a maturare i talenti più preziosi.

[…]

Caltrisia a dieci anni di distanza dal conflitto che l’aveva rasa al suolo stava ancora tentando di darsi una forma: la città si alzava senza far rumore, come l’erba che cresce, fiascata nel legno di centinaia di impalcature; nel nastro di edifici che si svolgeva verso il centro si apriva di tanto in tanto una nicchia, uno spazio clamorosamente vuoto dove un tempo, prima che il fuoco la sventrasse, sorgeva la casa di qualcuno. Le carcasse delle costruzioni rese inservibili erano state spolpate e i materiali che le componevano usati per riparare il riparabile; in certe aree era stata divelta anche la pavimentazione delle strade, ora simili a solchi nella terra lasciati dal torso di un enorme rettile. La pietra degli edifici era di colore cangiante: il grigio dei mattoni che affioravano dal suolo trascolorava nel nero dei quadrelli che reggevano il tetto; i comignoli, dove presenti, avevano l’aspetto di bizzarre escrescenze su una pelle in muta. Non c’era nessun cancello da varcare per entrare in città, né una teoria coerente di bastioni da costeggiare: in alcuni punti le fortificazioni erano ancora in piedi, in altri mancavano del tutto. Si erano accampati poco oltre la prima cerchia di mura - o meglio, ciò che di essa rimaneva – per proteggersi dal vento che andava a coricarsi ai piedi delle colline. Il committente della spedizione, un omino calvo, pacioso e del tutto incapace di farsi obbedire, questa volta insistette nel voler approntare il bivacco poco prima dell’abitato, perché pensare di riposare tra i fumi di una piana desolata che non aveva mai finito di bruciare era uno scenario irreale … poi non bisognava dimenticare che si era in viaggio da tanto tempo e ci si meritava qualche ora di sonno… e Fufi, sballottato com’era nella sua cuccia foderata accanto al nocchiero, non aveva voluto mangiare nulla in tutta la giornata. Avevano addossato ai ruderi delle mura le poche tende che avevano e disposto a raggiera attorno ad esse i dieci carri del convoglio per tracciare il confine del campo. Nessuno era venuto ad accogliere i forestieri; prima del digradare della luce nello spicchio di città in cui si erano sistemati posto nulla si era mosso. Ashef aveva chiesto e ottenuto una razione di vino suppletiva per sé e per chiunque non montasse di guardia, e non se la passava affatto male. L’alcol gli aveva sciolto la lingua e i pensieri, e moriva dalla voglia di parlare con qualcuno. Ciondolando per l’accampamento, notò Dryden, accovacciato per terra accanto al fuoco; pensò che sarebbe stato divertente stuzzicarlo un po’, e si lasciò cadere accanto a lui. Il capitano non lo degnò di alcuna attenzione; guardava le fiamme languire tra i ciocchi anneriti.
- Su, fatti un sorso! - esclamò il musicista, porgendo al capitano l’otre di cui aveva rivendicato il possesso quando avevano distribuito le vivande per la cena – ancora pochi giorni e potremo finalmente non rivederci mai più! C’è da festeggiare!
- In fondo si trova sempre qualcosa per cui festeggiare …- fece Dryden, senza staccare gli occhi dal falò. Ashef sulle prime si rallegrò del fatto che anche il compagno avesse un po’ di senso dell’umorismo, poi capì che non stava scherzando; non diede nemmeno segno di voler accettare un sorso dall’otre.
- Chissà che c’è di così interessante in mezzo a quel mucchio di braci che non si possa trovare sul fondo di un bicchiere- brontolò lo zingaro, brindando alla faccia di chi gli voleva male.
- Non riesco a guardarmi attorno- replicò Dryden – è tutto così diverso … - la sua voce si confondeva con il ruglio del fuoco. Ashef constatò con orrore che il soldato aveva bisogno di purgarsi la coscienza, scegliendo proprio lui come pozzo nero, e provò l’impulso di scappare via urlando; tuttavia la curiosa selezione di parole fatta dal capitano lo convinse a restare.
- Significa che tu sei già stato qui?
- Sì
- E che prima questo posto era diverso …
- È quello che ho detto.
Ashef non parlò per qualche istante; quando fu sul punto di chiedere quandodovecomeeperché, venne anticipato.
- Proprio non ci arrivi?
- …-
- Sono nato qui.
Ashef soppesò la portata di quell’affermazione e la giudicò bastevole a indurre le membra a irrigidirsi e la fronte a corrugarsi. Il soldato continuò - Ero solo un ragazzo quando Idiomea e l’Alleanza fecero della mia terra una distesa di cenere. Molti sono rimasti, ma io ho recuperato un’arma e sono partito verso altri luoghi in cerca di fortuna … dato che la fortuna del posto in cui sono cresciuto si era esaurita. Poi, non molto tempo fa, mi sono accorto di non aver mai cercato nulla: stavo solo fuggendo.
Oltre le mura mugghiava il vento.
- Fuggendo da Rinascita.
Il soldato sollevò lo sguardo dal fuoco; il vento che spazzava le piane aveva alzato nugoli di cenere chiara che ora si gonfiavano in cielo, preparandosi a piovere sulla città.
- Ho ricevuto una missiva da un amico- esitò un istante, poi proseguì – non è proprio un amico … uno che conosco, a cui piace dire stronzate. Non so davvero come abbia fatto a trovarmi, ma voleva avvertirmi di certi fatti strani che secondo lui sarebbero accaduti e starebbero accadendo tutt’ora nella vecchia Caltrisia …-
- Che genere di fatti?
- Ho detto tutto al padrone prima che la spedizione iniziasse. Lui non vi ha dato molto peso … perciò a noi la cosa non deve interessare.
Lo zingaro si risentì – Un discorso del genere me lo sarei aspettato da Fufi. Hai bisogno del permesso di qualcuno per pensare con la tua testa?
– Si tratta di storie gonfiate - grugnì Dryden.
- Avremmo avuto diritto di conoscerle. Sia io, che gli altri diciotto della scorta.
- Sarebbe cambiato qualcosa? – il tono del soldato si tinse d’afflizione - Te l’ho detto, sono solo panzane. Per di piú, anche essendone a conoscenza, l’entità del pericolo che staremmo correndo rimane imponderabile …
- No. Ma ci hai negato la possibilità di avere un’opinione in merito- in fondo agli occhi neri di Ashef covava rossa brace - oggi mi hai quasi tagliato la testa perché le ragioni della mia presenza non ti erano chiare… tu a che gioco stai giocando, capitano?
- Volevo solo passare a controllare … - disse Dryden; po con un filo di voce soggiunse - uno non può fuggire per sempre.
- Certo che no.
Ashef dovette ammettere a se stesso di avere molto in comune con Dryden, ma su questo punto le loro opinioni divergevano. Lo zingaro si alzò e si diresse verso la tenda destinata agli uomini della scorta per stendersi un po’.

[…]

Arrivarono a notte fonda, portando il fuoco. Gli uomini di guardia, che quando se li videro comparire davanti stavano facendo di tutto fuorché la guardia, non capirono quanti fossero; erano abbastanza da cingere l’intero perimetro dell’accampamento però. Una delle sentinelle si precipitò a dare l'allarme. Ci vollero le percosse per svegliare Ashef, cui il vino e il malumore avevano confezionato il sonno migliore di tutta la sua vita. “Cavalieri” gli dissero “una moltitudine. Ognuno di loro regge una torcia”. Ashef afferrò il bastone con cui combatteva, si avvicinò al portale della tenda e lo scostò quanto bastava per sbirciare di fuori. Cavalieri d’ossidiana su neri destrieri. Il mercante, in camicia da notte e col cagnolino sotto braccio, si era fatto d’appresso a un grappolo di condottieri e gesticolava convulsamente. Le figure bardate rimanevano immobili e in silenzio. Il musicista sgusciò dalla tenda, raggiungendo Dryden al centro del gruppetto di uomini che andava ammassandosi al centro del campo.
- Cosa vogliono?
- Che ce ne andiamo.
- Ma il piccoletto e Fufi preferiscono cercare una soluzione di compromesso, vedo.
- Ho idea che i negoziati stiano per finire…
Un rantolo e una serie di guaiti acutissimi troncarono la conversazione. Rullo di zoccoli e fuoco nel cielo. I cavalieri caricarono. Ciascuno degli uomini al soldo del mercante prese a pensare per sé; Ashef per contro era troppo spaventato per pensare. Le sue dita schiusero d’istinto la ghiera che assicurava la lama all’interno del bastone. Si udì un potente risucchio, seguito da un’ondata di calore: uno dei carri aveva preso fuoco. Il genuino terrore che dilagava nello zingaro si tramutò in foga quando decise di estrarre la spada e crearsi una via che portasse fuori da quel tartaro. Urla, stridore di lame. Ashef avanzava menando fendenti a qualsiasi cosa, amico o nemico, uomo o animale; poi qualcosa nella trama del mondo si sdrucì. Lo zingaro prese a galleggiare in un’oscurità nuova, inconsistente; avrebbe giurato di poter sentire il profumo delle stelle.

[…]

- Bevi.
La mano che gli porgeva un boccale di peltro colmo di vino erano grandi, coriacee e nervose come quelle di un macellaio. Ashef, disteso su un giaciglio improvvisato in un posto che non conosceva, ci mise qualche istante a mettere a fuoco il volto di Dryden. Il capitano, seduto accanto a lui su una cassapanca impolverata, lo scrutava con un cipiglio severo; aveva i pantaloni inzaccherati e la camiciola e la giubba di cuoio striate di cenere.
- Ti darò le risposte che cerchi prima che tu possa farmi le relative domande, così non dovrò ascoltare quella tua maledetta lingua che si divincola a vuoto.
Ashef tornò con la mente alla piccola zuffa che avevano avuto durante il viaggio e si chiese perché allora non gli avesse trafitto il cuore.
- Siamo al sicuro, per ora. Ci troviamo in un altro quartiere rispetto a quello in cui siamo stati attaccati, nella soffitta della casa di un mio amico d’infanzia per la precisione. Durante lo scontro ti hanno colpito e sei svenuto; a giudicare dal livido che ti ritrovi appena sopra la clavicola destra, hai preso una bella botta di piatto al collo.
Il musicista fece un sorso dal boccale; il vino era caldo e speziato.
- Non so come tu faccia ad essere ancora tutto intero. Ti visto per terra, conciato male, ma vivo … ti ho caricato in spalla e sono riuscito a fuggire. Per tua fortuna Caltrisia in dieci anni non è cambiata al punto da farmi perdere l’orientamento; il mio amico era in casa ed ha accettato di prestarti le prime cure e di accomodarti nella sua soffitta- Dryden si sfregò le mani e si alzò dalla cassapanca – nemmeno a lui i cavalieri neri vanno troppo a genio- aggiunse. Ashef si mise seduto, controllando di non aver perso pezzi in giro; cappello e giacca li aveva abbandonati nella tenda qualche istante prima dell’assalto, ma il resto sembrava esserci: steso accanto a lui giaceva il suo bastone- spada e un rigonfiamento nelle tasche delle sue brache di fustagno ocra svelava la presenza dell’armonica a bocca. Un sordo dolore gli si irradiava dalla base della nuca.
- Ti è andata davvero bene – fece Dryden; era tanto alto che rischiava di continuo di sbattere la testa su una delle travi scoperte del tetto - magari poi fammi sapere a che dio ti sei votato, che due preghierine gliele dico anch'io prima di dormire d’ora in poi.
- I cavalieri … chi sono? – chiese Ashef; la voce gli usciva smorzata dalle labbra. Il capitano di ventura scosse il capo – Chi ci ospita non ha saputo dirmelo e nemmeno l’altro mio amico, quello della missiva, conosceva nulla in proposito. Sono imperversati in città appena qualche giorno fa, prendendone il controllo con il ferro e col fuoco. Chi ha provato a fermarli ha fatto la fine di Fufi e del suo padrone.
- Hanno ucciso anche Fufi? – fece lo zingaro di rimando, con un viluppo di sentimenti contrastanti che gli stringeva il cuore.
- È morto da eroe – disse Dryden.
Ashef si svolse dalle coperte che gli avevano steso sopra mentre era svenuto e si alzò in piedi; sentiva le gambe molli e la testa gravare sulle spalle, ma stava bene.
- Immagino che debba ringraziarti …- disse in un sospiro il musicista.
- Consideralo il saldo di un debito. Ho deciso di tenere tutto per me e stare agli ordini di quell’idiota che ci ha assoldato, mettendo tutti in pericolo. I fantasmi dei nostri commilitoni morti verranno a cercarmi la notte, ne sono certo.
- Cosa farai adesso?
- L’unica cosa che sono capace di fare- disse, sfiorando la guida della spada– il committente della spedizione non c’è più e la missione è abortita, quindi sono libero da vincoli – si ammutolì un istante, poi precisò – lo siamo entrambi.
Ashef dopo l’inattesa gioia sperimentata nel trovarsi in possesso di tutte le facoltà fisiche e psichiche che valesse la pena possedere, capì che sarebbe presto rimasto solo in una città di rovine.
- La missiva, la stessa che mi ha spinto a tornare, dava notizia di diversi focolai di ribellione che si starebbero propagando tra i membri delle bande criminali di Caltrisia. Per inciso, si tratta di gente sconsigliabile, dal bassissimo profilo etico …- aggiunse, infilandosi nella botola che conduceva al piano inferiore - … ma conosco di persona molti di loro. È gente che, per rimanere nel luogo a cui appartiene, ha dovuto compiere molte scelte dolorose. Per quando poco valga la loro causa, ho deciso di unirmi ai ribelli. Tu puoi rimanere qui finché ti va, ma dovrai arrangiarti a tornare da dove sei venu…
- Verrò con te.
Dryden strabuzzò gli occhi.
- Non ho soldi; contavo sul compenso del mercante per tirare a campare, ma i cavalieri indirettamente me ne hanno privato. Per come la vedo io, ho un credito da riscattare presso il loro ordine.
Il capitano di ventura si sedette sul ciglio della botola; l’espressione che gli si era composta in viso era un mosaico di curiosità e diffidenza.
- Non ho nemmeno promesse da fare né a te, né ai disperati che combattono per riprendersi questo posto. Anche se ne avessi, la mia parola vale meno di zero. Tuttavia i cavalieri si sono presi i miei soldi, e con i soldi io ci compro il liquore; perciò è come se mi avessero sottratto tutto il liquore- soddisfatto della solidità della propria argomentazione, Ashef raccolse il bastone e si ravviò il ciuffo di capelli scuri che gli cadeva sugli occhi – E quando mi rubano il liquore mi arrabbio- concluse. Lo zingaro non seppe dire se il sentimento che veleggiava negli occhi del capitano fosse straniamento o compassione.
- Come credi- disse a mezza voce, prima di calarsi al piano inferiore.

[…]

La folla che lo attorniava era composta da quelli della sua razza: ladruncoli, tagliagole, disperati e perdenti d’ogni risma. Avevano gli occhi fissi a un palco vuoto, appena visibile attraverso il fitto dei corpi assiepati, e bisbigliavano un nome: Harlock; l’uomo che aveva unito le bande di Rinascita per dare battaglia all’invasore; la loro speranza e la loro condanna. L’aria nella caserma era pesante e pregna di afrori. Lui e Dryden avevano raggiunto il posto seguendo le indicazioni dell’uomo che li aveva accolti in casa, un tipo tarchiato, dallo guardo sveglio, rimasto solo a badare ai tre figlioletti dopo la morte della moglie; a quanto aveva capito, anche nella tragedia del vedovo c’entravano i cavalieri.
- Da adesso in poi risponderemo solo alla nostra coscienza- aveva sentenziato Dryden prima che facessero ingresso nel locale.
-Quale coscienza? - aveva risposto Ashef, che provava una certa avversione per le verità apodittiche. Entrando si separarono, fendendo la calca che si addensava ai margini del palco; lo zingaro si tenne lontano dal grosso della folla, appoggiando le spalle alla parete a destra dell’entrata. Nell’attesa che il capo di quella sgangherata rivolta si mostrasse, il musicista lasciò vagare per la stanza lo sguardo e i pensieri. A ridosso delle pareti campeggiava una teoria di armature carbonizzate; da alcune di esse tracce di sangue percolavano a grumi. Ashef se lo sentiva: tra le rovine fumiganti di Rinascita stava per succedere qualcosa di grosso; anche per questo, non solo perché l’ordine dei cavalieri in armatura nera gli era debitore di un discreto gruzzolo, aveva deciso di rimanere in città. Aveva l’impressione che a Caltrisia stessero per muoversi forze capaci di scrivere la storia, e lui era troppo impiccione per starsene in disparte.



Energia: 100/100
Salute: 100 (Illeso)
Equipaggiamenti:
    Bastone-spada
    Armonica a bocca

CAPACITÀ ATTIVE (Slot: /)

Titolo abilità
Contenuto abilità

GENERATORI ATTIVI
Titolo abilità
Contenuto abilità

TECNICHE ATTIVE

Riassunto: Ashef accetta l'incarico di scorta ad una carovana diretta verso sud. Fa conoscenza con Dryden, capitano di ventura, con cui ha una picccola scaramuccia. Il capitano confida ad Ashef di essere nativo di Caltrisia, partito in cerca di fortuna dopo la sua distruzione, e di essere in possesso di informazioni di dubbia veridicità su quanto starebbe accadendo in città, che però decide di non condividere con i compagni. Nottetempo, i cavalieri neri circondano l'accampamento e assaltano. Ashef viene colpito alla testa e sviene; si risveglia nella soffitta di un amico d'infanzia di Dryden. Lo zingaro decide di unirsi alla causa dei ribelli, un po' perché, in senso lato, l'ordine dei cavalieri neri gli deve dei soldi, un po' perché presente che qualcosa d'importante sta per accadere a Rinascita.

Note Questo post di dimensioni titaniche si è svolto così a lungo anche perché volevo dare un po' di spessore anche al personaggio di Dryden; non volevo, insomma, che si trasformasse in un espediente per introdurre Ashef nella quest. Fate del suddetto png ciò che volet :sisi:

Il testo del pezzo che Ashef canta nella prima parte del post è del brano "Cerco il tuo soffio" della Bud Spencer Blues Explosion


Edited by Farka - 17/5/2020, 19:33
 
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Caltrisia, terra bruciata.
rinascita: lo spettro - I

Vaga per le terre bruciate di Caltrisia, tra la cenere e il fumo, senza un motivo preciso: privo di ricordi continua semplicemente a muoversi, ad esplorare un mondo che ora gli è completamente sconosciuto. Mentre continua a camminare, sente qualcosa di strano e - poiché non aveva nulla di preciso in mente - decide di andare a vedere di che si tratti. Arriva in tal modo sotto un vecchio arco in pietra, oltre cui un tempo si ergevano diversi edifici di diverse dimensioni, in lontananza addirittura si possono scorgere i resti di quelli che dovevano essere alti palazzi e grandi monumenti. Nonostante sia in rovina, non è un luogo priva di vita: per le strade camminano ancora molte persone, e alcune di tali strutture sono state - sia pure grossolanamente - riparate.

Ora che è giunto nei pressi delle rovine, Romolo riesce ad avvertire distintamente la presenza dell'entità che si cela al loro interno. L'aura che la circonda è contorta, deforme, totalmente diversa da tutte quelle che ha avuto modo di sentire durante la sua breve vita come Scion. Inoltre, sebbene riesca a percepire con estrema chiarezza il fatto che essa sia pericolosa, non è in grado di capire precisamente quanto. La ragione per la quale egli è incapace di stabilire l'effettiva potenza di quella entità è la natura caotica che la caratterizza. Ogni volta che si concentra per carpirne a fondo l'essenza ha come la sensazione di star davanti ad una folla di persone, distinte ma al tempo stesso connesse, che si muovono e si ammassano le une sulle altre in un maelstrom che non gli consente di vedere quel che vi è in fondo. Una sensazione inquietante, giacché implica che essa abbia assorbito numerose vite. Romolo istintivamente la paragona al Fuoco, poiché anche quest'ultimo ha fatto suo tutto quel che erano diversi uomini. Tuttavia, gli basta ripensarci un istante per rendersi conto che si tratta di esistenze completamente diverse: oltre a essere molte volte più potente, il Fuoco è privo di caoticità, avendo scelto con attenzione coloro che sarebbero divenuti parte di sé, e quella che è la sua vera natura è facilmente percepibile anche dagli individui che sono meno sensibili (com'è accaduto per quel ragazzo che l'Erede in passato era). È curioso di sapere di che si tratti, ma non è sicuro se valga la pena di spendere il proprio tempo in questo modo. Comincia a grattarsi il mento, come solitamente fa quando pensa, e ad osservare le rovine. Passa qualche minuto, poi decide: colui il quale ha ereditato il peccato della Superbia scoprirà cosa si nasconde in quel luogo.

Sta per fare il primo passo oltre il vecchio arco in pietra quando avverte un'altra aura nelle vicinanze: la scruta per un breve attimo, non gli serve altro tempo per comprendere quanto potente sia l'uomo che essa circonda - e che si tratta di un individuo piuttosto interessante. Concentrandosi su di lui, Romolo percepisce infatti qualcosa di singolare, come se una seconda entità si nascondesse al suo interno. Una giornata piena di stranezza, non vi è dubbio, pensa il Discendente ridacchiando tra sé e sé. Richiama dunque la Lionheart, la quale in un mare di scintille color sabbia prende forma nella sua mano destra; l'afferra saldamente, poi in un solo fluido movimento la fa volteggiare, invertendo la presa così che la punta sia rivolta verso il basso, e pianta buona parte della lama nel suolo, alla sua destra. Dopodiché, incrocia le braccia ed attende. Colui di cui ha percepito la presenza lo sta per raggiungere, e non può far finta di niente: il Discendente del peccato della Superbia non ignora chi vuole incontrarlo. La ragione per cui egli è stato in grado di individuare la posizione di Romolo è semplice: come il Fuoco col quale si è fuso, lui possiede un animo così brillante che è impossibile non riuscire a sentire la sua presenza.

Non trascorrono più di pochi minuti prima che la persona che il Discendente stava aspettando arrivasse. Lo vede avvicinarsi da lontano, muoversi con una strana andatura e la schiena curva. « Riesco a sentire i tuoi occhi addosso da oltre la radura. Cosa sei venuto a cercare? » gli chiede quell'uomo dopo essersi trascinato davanti a lui ed aver sistemato un po' la postura, così che i suoi occhi incrociassero quelli del Discendente. Prima di rispondergli Romolo volta il capo, ad esaminarne meglio la singolare figura. A un primo sguardo, sembra essere un normale ragazzo sulla ventina: pelle olivastra, basso se paragonato a un titano qual è l'Erede, gracile; occhi e capelli scuri come la notte, tratti femminei. Se si fosse fermato a questo, gli avrebbe senza dubbio suggerito di allenarsi e mettere dei muscoli sulle sue ossa, proprio come aveva fatto lui -- un uomo che voglia definirsi tale non può certo essere tanto esile. Gli è tuttavia sufficiente spostare un istante lo sguardo sulle sue braccia e le sue mani per capire che è tutt'altro che un normale ragazzo: le sue braccia sono estremamente lunghe e venose, e le mani quasi non riesce a vederle nascoste come esse sono da una nuvola di energia rosso sangue. Qualcun'altro forse si sarebbe spaventato a vederlo, ma non l'Erede. Egli del resto lo sapeva già prima di incontrarlo, che lui non era una persona qualunque: non lo si può essere quando si possiede una simile forza.
« Sono qui perché un essere misterioso si nasconde tra queste rovine, ho intenzione di trovarlo. » gli risponde in modo sintetico - dal suo tono come al solito traspare enorme sicurezza. Il suo interlocutore si limita a inclinare la testa e a pronunciare « mh? », apparentemente confuso dalle sue parole. Decide allora di continuare con la sua spiegazione « Tu non sei in grado di percepirlo, non hai le mie capacità. Non temere però, nessuno può compararsi a me. »: è l'Erede della Superbia del resto, colui il quale si erge al di sopra di tutti gli individui di tutte le razze. Poi, sorridendogli con una gentilezza che non ci si aspetterebbe da una persona tanto orgogliosa, gli dice « Tuttavia, ammetto che sei una persona forte. Hai attirato la mia attenzione fin da quando ti ho sentito, per questo ho preferito aspettarti. » L'uomo che ha di fronte ricambia il suo sorriso, sebbene lo fa in una maniera che lascia trasparire con chiarezza il fatto che non è solito compiere simili gesti. Quindi alza gli occhi al cielo e, con voce tanto bassa che lo Scion riesce a sentirlo a stento, dice « È un pazzo mondo, bisogna dare per vera l'ipotesi più folle. »
Dopo avere proferito tali parole lo strano figuro inizia ad avvicinarsi a Romolo, che colto alla sprovvista non può non domandarsi che cosa lui abbia intenzione di fare. Quando a dividerli è soltanto lo spazio di pochi passi, l'uomo tira un profondo respiro col naso: mi sta annusando? - si chiede il Discendente con non poco curiosità - forse è il suo modo di interagire con coloro che non conosce - pensa, comparandolo implicitamente a un qualche animale selvaggio. È quasi divertito da quello strano modo di comportarsi, per cui non vi dà molto peso e lo lascia fare. Tuttavia, non appena nota la carne della sua mano sinistra contorcersi su sé stessa e cominciare a mutare forma, cambia istantaneamente atteggiamento. Il corpo dello Scion reagisce a ciò in modo rapido e preciso: turbina su sé stesso, tanto aggraziatamente da dar l'idea di star danzando, ed afferra Lionheart con la mancina; durante la rotazione, mentre dà la schiena a colui che sembra stia per diventare un suo avversario, cambia la presa, così da riuscire a stringere più saldamente l'impugnatura; frappone dunque la sua spada alla lama in cui l'arto dell'uomo nel frattempo si era trasformato. Lo sguardo si fa grave, e con tono minaccioso tuona: « Cosa stai cercando di fare? » Odia essere attaccato dopo che si è mostrato amichevole: è dare per scontata la gentilezza di un essere superiore qual è lui e, come se ciò non fosse già abbastanza, rifiutarla.
« Io non ho le tue abilità, pensavo avessimo assodato questo punto. » è la risposta che riceve. Romolo lo guarda ancora qualche istante, poi abbassa il capo e tira un profondo sospiro « aah~ » - tutta questa scenata per nulla, insomma. Colui che ha ereditato il più grande dei peccati, mentre le due lame ancora stridono una contro l'altra, sente che sia necessario precisare come stanno le cose. « Non c'è bisogno di fare cose del genere: io non mento, non è nella mia natura. » ed è vero, è la sua natura ad imporglielo: le persone forti non hanno alcuna ragione di mentire - e non vi è nessuno che sia più forte di lui. A quel punto, uno abbassa la spada, l'altro invece ritrae la lama che ritorna ad essere la sua mano.
« Accetterei volentieri una mano d'aiuto, quella cosa mi interessa. » dice lui, al quale il Discendente risponde « Il tuo aiuto è benvenuto: il mio nome è Romolo, qual è il tuo? » poiché egli non è di certo la persona che si limita a dare una mano; no, egli sarebbe stato il protagonista di qualsiasi vicenda questa si sarebbe rivelata essere. Non ci si può aspettare altro, dopotutto, dal più orgoglioso degli uomini. « Il mio nome... » inizia, ma devono passare lunghi secondi prima che termini la frase, secondi durante cui lo Scion si domanda quanto difficile sia ricordare il proprio nome: forse ne sta inventando uno? O forse c'è una storia complicata dietro? Qualsiasi sia il motivo, quella strana attesa sta diventando sgradevole. « Puoi chiamarmi Arrokoth, suppongo. » finalmente, pensa Romolo, che gli dà una pacca sulla spalle e poi gli dice « Bene Arrakoth, è un piacere fare la tua conoscenza. ». Inizia a sentire lo sguardo degli astanti su di sé, probabilmente incuriositi dalla spettacolo che hanno messo in scena, e - perché ritiene non sia il caso di attirare tanta attenzione - prosegue « Penso sia arrivato il momento di muoversi. » Solleva dunque lo spadone sulla spalla e si avvia oltre l'antico arco in pietra, seguito da Arrokoth.

────────────────

R o m o l o

Energia. 100%.
Stato Fisico. ottimale.
Stato Psicologico. ottimale.

Capacità:
burning soul: Romolo è in grado di percepire tutte le creature intorno a lui, sia viventi che non, e di conoscerne il livello. Tuttavia, allo stesso modo, le creature di cui avverte la presenza avvertono la sua.

Tecniche:
bond: Romolo può chiamare l'arma a sé, a prescindere da dove essa si trovi, senza consumare energie.

Equipaggiamento
— Lionheart in pugno.

Note.
Niente da dire.



 








Edited by Neéro - 18/5/2020, 20:25
 
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Viscere di Sawan ~ Corridoio di Cristallo

Messaggero incespicò sul grosso cristallo di eterite rotolando come una palla di zampe e fango per parecchi centimetri, un'infinità per il piccolo insetto.
Si rialzò come se nulla fosse successo scrollandosi dalle zampe tutto il terriccio alzando nuovamente gli occhi al soffitto. L'aria era parecchio umida e le gocce che ogni tanto cascavano dalle fessure in alto, grandi bombe d'acqua che schivava con notevole agilità, si schiantavano contro le innumerevoli gemme fosforescenti che sembravano germogliare come fiori in un prato tanto erano numerose. L'eco che ne scaturiva vibrava nell'aria percorrendo una strada invisibile nel buio, parlando un lingua a cui a volte nessuno sapeva rispondere e altre invece dove strani versi nascosti dalla pietra le davano corda. "Vicino il mare, svolta a destra dopo il grosso cristallo. La colonia aspetta lì." - si ripeté in testa con la stessa voce del S.C.T ( Sommo Consiglio di Testa ) scandendo con particolare accuratezza parola per parola che aveva accuratamente segnato per non dimenticare nulla . Il Consiglio raccoglieva all'interno di esso gli insetti più illustri e anziani della colonia, la somma autorità all'interno di tutto lo sciame ma anche quella con più responsabilità. I rappresentanti del Corpo potevano anche tenere in piedi tutto, ma senza la guida della Testa anche il più piccolo movimento sarebbe stato impossibile da compiere.
Messaggero era il numero 133331- numero palindromo e suo piccolo personale motivo di vanto - della sua numerosissima famiglia, insetti messaggeri, tutti. Così come suo padre, il padre di suo padre e così via attraverso le generazioni ( che a dirla tutta duravano al più qualche settimana ) era nato con una sola funzione, espressa a chiare lettere sul giuramento a cui tutti gli insetti del suo gruppo dovevano aderire.
Posò nuovamente gli occhi lungo la via debolmente illuminata dai cristalli e dai grossi funghi, serrò le gambe con fare deciso e si batté il petto con due delle otto zampe con vigore patriottico. Nella sua testa il giuramento tuonò con il ricordo del giorno in cui aveva, insieme al suo gruppo, giurato fedeltà alla colonia.
"Io messaggero 133331 prometto di mettere la mia vita al servizio della colonia e di esplorare il mondo per essa!"...o qualcosa del genere, la memoria non era il suo forte; questo gli era costato il soprannome di Testabuco ma a lui piaceva giustificarsi spiegando che le sue gambe correvano molto più in fretta del suo cervello.
Sul guscio, legato da una piccola liana, teneva un foglio dove aveva annotato importanti informazioni per la colonia.
Le aveva pagate al prezzo di un appostamento durato tre giorni e tre notti ( la verità è che si era perso ) osservando a debita distanza ( cioè spiando ) un gruppo di Jin che parlava animosamente di una spedizione verso una certa Cartisia...Caltisia... o qualcosa del genere. Fortunatamente per la colonia ( e per evitare che l'intero sciame gli ricordasse il suo soprannome fino alla fine dei suoi giorni ) era riuscito a segnare tutto, nome compreso, con precisione sulla foglia pallida che si era portato. Le foglie pallide sono la cosa che più in natura si avvicina ad un foglio di carta su cui scrivere; cresce lontano dal sole ma ma si orienta di notte seguendo la luna bianca di Altea.
Il difetto è che è molto sottile e fragile, ma quando sei un insetto è un problema più che trascurabile. Ma torniamo al Messaggero.
Il nostro Testabuco aveva infatti copiato sulla foglia pallida quella che somiglia alla rotta verso un percorso che non conosceva ma che sembrava promettere bene. Le antenne gli si erano drizzate appena percepito la parola etere e tanto era bastato a motivarlo a compiere la sua impresa.
La colonia era infatti ferma da giorni sottoterra impegnata a riparare la tuta da scavatore dentro la quale aveva eretto una vera e propria micro-civiltà. Il suo compito, insieme a tanti altri, era quello di esplorare i dintorni e comunicare eventuali vie di ritorno o, ancora meglio, interessanti mete che tenessero tutti impegnati.
Per la gioia aveva dimenticato la strada del ritorno e solo dopo parecchie ore ( un'eternità per un insetto del suo calibro ) era incappato per puro caso addosso il grosso cristallo.
Riprese il cammino zampettando velocemente senza esitazione. Svoltò a destra per un piccolo tunnel scavato dall'acqua, poi ancora a destra scivolando attraverso un tappeto di grossi funghi appiccicaticci.
Davanti ai suoi occhi giaceva per terra la grossa tuta da minatore e sopra di essa l'intera colonia si agitava e si industriava come un ingranaggio perfettamente coordinato; un'eccezione al caos di idee e opinioni che sovente regola la vita dell'intero sciame.
Messaggero si erse su due zampe, petto in fuori, e si incamminò tronfio verso casa.
Presto tutta la colonia si sarebbe messa in viaggio.


Foèn: il vento di fuoco


"UOOOOOOOoo" - con enorme sforzo la colonia cercò di coordinarsi per scalare l'ultimo tratto della collina rocciosa che la separava, almeno stando alle note, dalla meta.
Il viaggio era durato un'eternità e la tuta si era nuovamente rovinata. Gli innumerevoli tentativi di rattopparla ormai riuscivano a malapena a coprire la lunga serie di fori e graffi il percorso aveva regalato a tutto lo sciame e adesso, guardando con attenzione, era possibile scorgere strani movimenti e occasionalmente qualche piccolo insetto attraverso la stoffa.
La colonia si diede un'ultima spinta verso l'alto facendo leva sulla forza degli insetti più grandi che sorreggevano le due colonne viventi che formavano le gambe.
Attraverso le cavità dell'elmetto gli insetti osservatori scrutavano l'orizzonte come mozzi su una nave in cerca della terra ferma. La descrizione del paesaggio veniva comunicata attraverso un picchettio ritmato ai messaggeri e riferita al Sommo Consiglio di Testa.
Davanti alla colonia giaceva quello che sembrava essere dalla sua prospettiva un vero e proprio inferno, così alto e caldo da farla vacillare per qualche secondo incredula. Abituata infatti ai cunicoli bui e stretti, uno spettacolo del genere era più unico che raro.
Con un altro sforzo di coordinazione la colonia avvicinò le note all'elmetto a più riprese quasi a volersi convincere di essere finita nel posto giusto.
L'aria era elettrica di etere e questo accendeva nell'animo di tutti una fervida eccitazione che a malapena la tuta riusciva a contenere.
Senza perdere ulteriore tempo prezioso la colonia si abbandonò sicura lungo la discesa, scivolando sulla schiena lungo il percorso caldo e polveroso.
Attrezzatura in spalla, la grossa tuta da minatore sparì nella luce delle fiamme e attese avvolta dalla cenere.

note: finalmente ho trovato qualche minuto per buttare giù qualche riga, non scrivo da una vita e probabilmente si nota parecchio. Ci sono alcune cose che vorrei definire meglio del personaggio e spero che se ne presenti l'occasione, anche perchè vorrei darle un'impronta "comica" ma credo che sarà più complicato del previsto. Nessuno specchietto perchè non credo che serva in questo momento. Ho parlato già troppo, al prossimo post!
 
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view post Posted on 15/5/2020, 18:46
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Un ragazzo scrutava il proprio riflesso sulla superficie bronzea di una conca di rame.
Le sue lacrime solcavano un volto angelico, rigato dalla costernazione.
Un ultimo, profondo sospiro prima di tuffare la testa dentro la conca.


Le urla del ragazzo eruppero nella mente di un uomo, uscendo dalla sua gola asciutta in uno sforzo ansimato.
Si svegliò di soprassalto, stravaccato sulla superficie di un comodo letto di sudore.
Sentiva che qualcosa non andava, che qualcosa era diverso dal solito. Ma non riusciva a spiegarsi cosa. Non riusciva a spiegarsi tante cose, a dir la verità.

«Dove sono?» Chiese alla bambina «Chi sei?»

La piccola creaturina ciondolava da una parte all'altra, tenendolo d'occhio. Aveva dei boccoli castani così diligentemente acconciati da sembrare scolpiti nella pietra. Non pareva nemmeno reale da quanta perfezione sfavillava dai suoi riflessi e dai suoi comportamenti esemplari, esattamente quelli che ci si aspetta da una bambina ideale. Guardava l'uomo, suo ospite, con un sorriso sincero che si affacciava da un viso pulito e delicato. Le mancava un dente.
D'un tratto, quasi come se avesse aspettato che l'uomo si fosse finalmente svegliato, la bambina sembrò accendersi. Prese un panno umido da un secchio ai suoi piedi, lo lasciò gocciolare a mezz'aria per qualche istante ed infine, dopo averlo strizzato con un certo vigore, fece per poggiarlo sulla fronte accaldata dell'uomo, lo stesso che, adagiato sul letto di paglia che un tempo era appartenuto a suo nonno, le aveva chiesto dove fosse e chi fosse.
L'ospite reagì inaspettatamente, lanciando un gesto automatico, istintivo, finanche meschino, contro quell'atto caritatevole, scacciando con un colpo secco il panno umido e la mano misericordiosa della bambina. Aveva finalmente compreso, l'uomo, cosa ci fosse di diverso dal solito in quella scena: non indossava l'elmo dell'esercito, la sua faccia era scoperta.
Mosse le mani di scatto, coprendosi il proprio volto alla bell'e meglio. Incurvò oltretutto il collo in avanti, al fine di nascondersi ulteriormente tra le spalle dolenti. I palmi incontrarono dei lineamenti alterati e delle curve innaturali, nauseanti, spaventose. Non adatte alla visione di una bambina innocente. Non adatte alla visione di nessuno, a dirla proprio tutta. I polpastrelli strangolarono il volto facendo leva su una rabbia repressa mai del tutto guarita.

«NON GUARDARMI!» Ululò l'uomo.

La sua voce rimbalzò contro le pareti di pietra come tanti macigni lanciati sui declivi di un dirupo scosceso, e quando riempì di nuovo le sue orecchie, una mescolanza di emozioni contrastanti aveva già percosso il suo spirito sconvolto, prendendo il controllo di una volontà alla deriva.
L'uomo rotolò su un fianco, gli occhi sbarrati e la bocca boccheggiante che tentava di catapultare fuori dal fondo del proprio intestino la merda di ricordi che aveva ingurgitato fino al giorno in cui si era risvegliato sul letto di una camera sconosciuta, davanti ad una bambina idilliaca. Il suo cuore batteva all'impazzata, cercando di cavalcare lo stallone imbizzarrito che saltellava dentro la fottuta scatola in mezzo alle tempie. Il corpo tremava, evaporando in un gelido sudore appiccicoso. Sarebbe voluto scappare, strapparsi la pelle di dosso e nascondervisi dentro, sarebbe voluto soffocare all'interno di una qualsiasi merda di maschera. Era come soffrire di claustrofobia al contrario.

«Non agitarti» Gli disse la bambina con una vocina sottile «Sei ferito»

«Non hai paura di me?» Chiese l'uomo con la faccia coperta. Non hai paura di ciò che rappresento?

La bambina scosse il capo con un timido sorriso «Come potrei?» Disse, con un'alzata di spalle «Voi ci avete salvati, avete scacciato il nemico dalle nostre terre, rendendoci liberi» Raccolse il panno, ancora umido, da terra. Lo sciacquò rapidamente e lo poggiò sulla fronte perplessa dell'uomo, ora troppo distratto dai suoi pensieri per potersi opporre al gesto di misericordia.

«Tu sei un eroe»
La rabbia, finalmente, esplose dal cuore di Rozwald in un grido di guerra che spaventò la bambina.



- - -



La pennellata di un artista sconsiderato tinge il mondo di rosso.
Bagliore. Il tempo si ferma.

Uomini identici che si odiano senza sapere perché, se non per il semplice motivo di essere uomini, combattono.
Cani randagi, ammaestrati. Addestrati per distruggersi e distruggerci.

Sullo sfondo, dietro le quinte della battaglia: la povera gente. Quella che diamo per scontata.
Pecore ignoranti, colpevoli di non comprendere le regole del grande gioco. Ubbidienti, accomodanti, assecondanti, finanche vigliacche. Belano senza capire alcunché.

Nessun cane né alcuna pecora si abbraccia nell'istante di quel bagliore.
Non c'è stato avvertimento, non c'è stato presentimento.
Nessun addio. Nessuna dolce, ultima, parola di commiato.

Solo uno strano aggeggio che sorvola il cielo, pigolando.
Un bambino lo indica ridendo. Lo crede uno strano uccello.

Il pennello sfugge al controllo dell'artista. Ingurgita tutta la bellezza del creato in una fame divoratrice, inarrestabile.
Terra, pecore e cani. Persino quelli del padrone non vengono risparmiati.

L'inferno atterra sul mondo e la porta d'ingresso gliel'abbiamo aperta noi.
Tutti noi: cani e pecore. Condividiamo la stessa colpa, chi più chi meno.

Al bagliore segue il boato.
Ma quando sopraggiunge, ormai di Caltrisia non è rimasta che polvere.

Un soldato cade tra i campi dilaniati. Il fiato gli arde in gola.
Ha perduto l'elmo. Le fiamme lo ghermiscono mentre rotola lontano dal suo volto.

Gli occhi del soldato registrano per l'ultima volta l'inferno, imprimendolo su quella dannata pellicola altrimenti nota come memoria.
Non dimenticherà. È impensabile che ci riuscirà mai.

Presto il dolore che prova si trasformerà in rabbia. Per il momento ha soltanto paura.
Chiude gli occhi. Spera di non svegliarsi mai più.

Un silenzio assordante segue il boato.
Un fanculo di silenzio straziante che va avanti all'infinito, fino alla fine della fine.
Tanto forte da risultare più distruttivo del bagliore e più terrificante del boato.
Erompe, teso come il pubblico in attesa della morale al termine di una storia incomprensibile.
Ma questo silenzio finisce per uccidere anche quell'attesa, lasciando il pubblico interdetto.
I BUU soverchiano il teatro. L'attore soffoca nella sua sfacciataggine.
Non c'è spiegazione, oggi. Nessuna allegoria:

L'uomo ha fallito.


- - -



Un uomo si fermò, il sole stanco del tramonto come un bacio sul suo viso di seta ecrù macchiato di sangue essiccato. Dalla maschera facevano capolino due occhi qualunque, pungolati dalla luce sferzante della stella. Scaldava le sue iridi castane, trasformando l'autunno ivi racchiuso in un piacevole pomeriggio primaverile.
Quell'uomo aveva passeggiato all'inferno, in una vita passata, e anche se si era ripromesso di non tornarvi più, eccolo che calpestava di nuovo i suoi perenni, fumosi, campi. Gli stivali affondarono nella cenere, terminando il solco che vi avevano iniziato a scavare centinaia di migliaia di passi addietro nei giorni precedenti.
Inspirò. Una lacrima sfuggì dalle sue palpebre. Se qualcuno glielo avesse chiesto avrebbe risposto che una briciola di polvere gli era finita nell'occhio. La verità era che non si sarebbe mai immaginato di rivivere il puzzo del disastro. Né di ricordarsi di quel suo acre sapore. Dopo tutti quegli anni, l'odore della morte e del tradimento ammorbava ancora l'aria là attorno e probabilmente avrebbe continuato a farlo in eterno. Quasi come se il suo scopo fosse stato quello di scuotere il mondo a son di accuse, di rivolgersi all'orgoglioso popolo dei viventi in un linguaggio tutto suo, con parole che nessuno conosceva ma che tutti non potevano che comprendere, per comunicare loro quanto facessero schifo. Frasi volgari come quelle lanciate da una vedova a cui è stata tolta la concessione di una giustizia privata. Gridava e, l'uomo ne era certo, avrebbe continuato a farlo in eterno così che nessuna creatura potesse permettersi il lusso di dimenticare.
L'essenza della vita faceva paura. Ad un certo punto la legittima lotta per la sopravvivenza si era trasformata in lotta per la supremazia. O forse lo era sempre stata e solo quell'uomo non era riuscito a vederla fintantoché il disastro non aveva spalancato il dietro le quinte di quel teatro terrificante, rivelando, anche ai suoi occhi ingenui, i mostri grotteschi dal grifo peloso, la pancia rotonda e la coda arricciolata che si celavano dietro le maschere degli uomini-attori.
Adesso, a dispetto di tutto, il risultato dell'opera dell'uomo era sotto gli occhi di chiunque e lo sarebbe stato per sempre.

Il motivo che aveva spinto l'uomo a calpestare nuovamente i campi dell'inferno era quello di portare la verità al mondo, anche alle pecore incapaci di comprenderla o che credevano erroneamente di belarla già. Se non anche quello di sterminare i mostri grugnenti. I signori dell'oblio, della follia e dell'annientazione, quelli che si auto-commiseravano quando parlavano di Caltrisia e del disastro che avevano prodotto.
Falsi ipocriti bastardi.

Uno schiaffo d'aria gonfiò le pieghe dello spolverino dell'uomo, facendolo rinsavire. Attorno a lui: polvere, detriti e rovine.
E silenzio. Quel fanculo di silenzio.


Hello darkness, my old friend,
I've come to talk with you again,
Because a vision softly creeping,
Left its seeds while I was sleeping,
And the vision that was planted
in my brain
Still remains within the sound of silence.
[Simon & Garfunkel]




Edited by H I G - 16/5/2020, 15:34
 
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view post Posted on 18/5/2020, 23:15
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— r a g e —

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I passi trafelati di quella che, all'imbrunire, sembrava essere la figura di uomo nel fiore dell'età risuonavano violenti nel vicolo, come colpi di archibugio attutiti da un alone umido, ovattato. Aveva piovuto parecchio nelle ultime ore, e la luna bianca, timida, faceva capolino tra le nuvole. Le sue ampie falcate aumentavano esponenzialmente il rischio di scivolare e andare a schiantarsi in maniera sgraziata contro staccionate e corrimano. Non poteva permetterselo, aveva troppa paura anche solo di rallentare per guardare indietro. Non si era nemmeno reso conto di quanto ormai fosse vicino a Cholême, dove sperava di poter recuperare un po' il fiato, e magari dimenticare ciò che aveva visto subito dopo averlo raccontato in locanda o strillato per le strade. Il suo cavallo era inciampato nella fanghiglia un paio di chilometri più indietro, e non si era preoccupato di sincerarsi delle sue condizioni. Con un po' di fortuna, avrebbero preso prima lui, facendogli guadagnare minuti preziosi. Mors tua, vita mea. Un paradigma che su Atea si applicava anche ai compagni di una vita, figuriamoci agli animali.

Entrò nel villaggio ansimante, incapace persino di sputare un qualche ringraziamento al proprio dio. Non poteva credere a ciò che aveva visto - eppure si era ritrovato a correre, a scappare come un bambino. Francamente, gli importava il giusto anche di come sarebbe stata accolta la notizia lì a Cholême. Che gli avessero creduto o che fosse stato preso per pazzo, il giorno dopo avrebbe comprato un quarter horse o un qualunque altro purosangue e sarebbe fuggito verso Nord, il più lontano possibile da quella maledetta regione e da quel villaggio di aborti.

Spalancò con forza le porte della locanda, trascinando con sé il fango che aveva calpestato e raccolto intorno agli stivali. Tutti gli occhi delle persone all’interno si piantarono sulla sua figura, persino quelli dei guerci. Cadde in ginocchio ansimando, portandosi le mani al volto. Era salvo, almeno per qualche ora. O quantomeno, in mezzo a quel mucchio di anime dimenticate da chiunque avesse creato Atea, avrebbe avuto qualche possibilità di sopravvivenza in più. Legge dei grandi numeri, più che reali abilità. Sempre che i numeri degli altri non fossero ancora più grandi.

« SARASAMSA! » urlò sconvolto. « Sono tutti-- A Sarasamsa sono tutti-- »
« L’inferno » non riuscì a spiegarlo meglio. « Sembra abbiano aperto le porte dell’inferno »

« Merda. È il villaggio che avevamo individuato. »
Barther Bishop finì di prestare attenzione alla scena, tornando a sedersi in modo composto alla tavolata coi propri Fratelli. Il Branco si era fermato a Cholême durante la strada che, fra i territori del gruppo di Tawrich nella punta Settentrionale, li stava portando verso Sud. Non avevano preso poi molto da quel villaggio, per non attirare sguardi e pensieri indiscreti. Si erano, al contrario, già guardati intorno, individuando proprio in Sarasamsa la loro prossima tappa: laggiù in Caltrisia la situazione, e qualche sparizione o morte in più non avrebbe fatto poi tanto notizia. La situazione, tuttavia, a giudicare dai terrificanti racconti dell’uomo, era collassata, e i Fratelli potevano ritrovarsi a dover ritardare i propri piani, dagli spostamenti alla caccia, scoprendo il fianco ad una rapida rappresaglia di Tawrich – quanto meno stando alla sua minaccia.

« Dannati fanatici, hanno fatto fuori tutta la selvaggina »

Jandal era completamente diverso da Barther. Non era altrettanto istruito, né poteva vantare la stessa capacità di adattamento dei propri compagni, ma era un battipista eccezionale, oltre che un fabbro fra i migliori che Aghash avesse mai visto all’opera. Nel fiutare e stanare le prede, poi, non era secondo a nessuno dei propri Fratelli. In una società, come quella dei Mannari, che poteva essere definita violenta e sanguinaria, lui spiccava per irruenza e implacabilità. Ciò in cui invece non eccelleva – e questo faceva di lui niente più che un prezioso béta – era la capacità di giudizio, la visione e la comprensione delle situazioni. Il pensiero laterale. Il suo ruolo, nell’economia di quel branco ridotto ai minimi termini, non era quello di prendere le decisioni, ma quello di eseguirle.

« Non è cambiato niente. » osservò Aghash, mentre i propri Fratelli discutevano su quale sciagura fosse capitata al branco, privato improvvisamente della fonte di cibo che aveva individuato nei giorni precedenti. « Nessuno di noi rimarrà a pancia vuota, nei prossimi giorni. »

Non mentiva, lo credeva davvero. La possibilità di rimanere senza obiettivi da cacciare si era posata nella sua mente per qualche momento, ma era stata subito ricacciata indietro dalla ragione. Per un attimo, un istante, quell’eventualità gli parve reale come il liquore che gli aveva appena incendiato la gola. Gli ultimi mesi erano stati duri, al Nord, e Tawrich era spesso stato criticato dai membri del branco di non fare abbastanza per garantire ai fratelli un terreno di caccia fertile. La verità è che il branco aveva spremuto il proprio territorio fino all’osso, ma l’Alfa era troppo sicuro delle proprie azioni, troppo confidente nelle proprie decisioni, per anche solo considerare di spostarsi, proprio come un gruppo di predatori è costretto a fare dopo aver preso tutto il possibile da un luogo. Non avrebbe commesso lo stesso errore, non con un branco giovane come quello.

« Non lasciare che le ferite del passato prendano le decisioni per te. » disse uno dei suoi fratelli, quasi riuscisse a leggere i pensieri che balenavano nella sua testa come un libro aperto.
« A me il passato non interessa, Rilba. », precisò. « E la situazione è meno complicata di quella che credete. »
« Come puoi esserne certo, Aghash? »
« Il cibo è ancora lì, Fratelli miei. Dobbiamo solamente cambiare preda. »


CALTRISIA, TERRA BRUCIATA
Sarasamsa
IC — LA DANZA DI SANGUE


Coprirono qualche chilometro a piedi, non più di una decina. Il cocchiere - un vecchio guercio che rispondeva al nome di Dunjohn - era stato chiaro fin dall'inizio: « Col cazzo che vi porto in quel posto di merda ». Qualche pressione e qualche pezzo d'argento in più lo avevano convinto a scendere a compromessi. La notizia del massacro sembrava aver corso più veloce dei carri e delle corriere, raggiungendo ben presto i villaggi e le cittadelle nei dintorni, e per un po’ i viaggi da e per quel tratto di valle sarebbero stati interrotti. Nessuno aveva voglia di tirare le cuoia, tantomeno in tempi come quelli. Il vecchio Dunjohn non perse nemmeno tempo a contare i pezzi d’argento: appena l’ultimo dei compagni di Aghash fu sceso dal carro frustò i cavalli per tornare verso casa, dove avrebbe speso il guadagno in una bottiglia di vino e in una scopata. Un modo come un altro di tirare a campare.

« Non mi occorre correre più veloce del leone, mi basta correre più veloce di te. » disse Barther, citando un detto del Sud, commentando la scena che si apriva davanti ai loro occhi. Lungo la strada, oltre alle tracce di numerosi zoccoli di cavalli al galoppo, tutte in senso opposto a quello della loro marcia e seccate dal calore del Sole, non fu difficile notare i carri ribaltati e merci lasciate al proprio logoro destino. La precipitazione nella fuga aveva finito il lavoro che, nel villaggio, i cultisti avevano cominciato. Per non morire accoltellate, i fortunati con un carro o un cavallo avevano preso a scappare, lottando l'uno contro l'altro per aver salva la vita. Staccionate si alternavano ad ampie distese di terra riarsa, secca: il terreno, fra i più settentrionali dei territori centrali, non sembrava diverso da qualsiasi altro panorama di Caltrisia, eppure, a pochi chilometri da lì, Sarasamsa sembrava miracolosamente scampata a gran parte della distruzione avvenuta dieci anni prima. Dimenticata anche in quel caso da chi lancia i dadi del destino di Atea.

Incontrarono la prima casa sulla loro destra. Le stalle, aperte, non avevano traccia di cavalli, se non quelli che erano fuggiti, probabilmente liberati nella follia dell'estasi cultisti, vista la superficialità delle tracce. I mattoni chiari della muratura sembravano ignorare ciò che era successo al suo interno; la porta aperta rimaneva lì immobile, in un silenzio tombale. Di fronte a lei, uno tappeto di sangue, come se qualcuno fosse stato trascinato via, portato con la forza verso un giaciglio perpetuo. Persino il cancello in legno della bassa staccionata era aperto, come quello di una locanda: i fanatici non si erano nemmeno preoccupati di scavalcare, violando in entrata e in uscita qualsiasi pertugio di quel terreno, cosi come di quell'intero villaggio.

Mezzo miglio più avanti trovarono il primo cadavere. Se non fossero stati dei mannari, avrebbero giurato che di lì fossero passate delle bestie antropofaghe. Lo trovarono sbattuto a terra, in una curiosa posizione simile a quella di uno uomo seduto a pensare, stanco, incapace di trovare riposo persino nella morte. Tagli di quelli che dovevano essere pugnali si stendevano per tutto l'addome, e da questi il carminio del sangue ne aveva impregnato i calzoni. Persino il ciottolato della strada si era tinto di rosso, quel giorno. Uno spettacolo raccapricciante persino per un manipolo di creature della notte. Quantomeno - si dissero - la loro fame era mossa da istinti naturali. Cane mangia cane. Catena alimentare. Un meccanismo che aveva portato avanti il mondo e l'esistenza delle specie. Quel che avevano davanti era qualcosa di diverso: omicidi efferati commessi per soddisfazione, con ritualità, con una serialità chiamata e dettata da chissà quale dio o dea, di certo qualcuno voltato dall'altra parte, per niente interessato alle sorti di quelle stupide creature che popolavano Atea. Che si ammazzassero, che morissero, che si uccidessero. Persino in nome loro.

« Non è morto da più di un paio di giorni »

Non aveva sbagliato, Jandal. Non sbagliava mai. Eppure quell'alone di minaccia e sciagura che aleggiava su Sarasamsa era tangibile, palpabile per qualsiasi membro del branco. Alzando lo sguardo, Aghash si rese finalmente conto in che razza di posto fossero finiti. Nessuna descrizione poteva aiutare a distinguere Sarasamsa dagli altri numerosi villaggi della zona: poche case, qualche stalla, costruzioni che si facevano più strette e vicine nel cuore del villaggio, intorno a quella che, di fronte al piccolo tempio, doveva essere l'ampia sala municipale. Le costruzioni, in muratura chiara, rifinite con assi di legno per sorreggerne e disegnarne le linee, si arrampicavano intorno alla piccola altura sulla quale era costruita Sarasamsa. Una collina, più che un monte, utile solamente a far spiccare fra gli altri gli edifici più importanti e dar più risalto possibile ai rintocchi delle campane.

Non era quello, tuttavia, il suono che giunse alle orecchie di Aghash e dei suoi fratelli. L'atmosfera era al contrario satura di urla e grida, un concerto nel quale le voci delle vittime cantavano insieme a quelle dei carnefici. Potevano sentirle in modo abbastanza distinto, tutte quelle voci, soprattutto le seconde: si prodigavano in sinistre risate e infauste urla, più simili a quelle di persone in estasi che a quelle di bestie infuriate. C'era tono di sciagura e malaugurio in quei versi, sparsi nell'intero villaggio. Provenivano dalle vie, dalle case, dalla chiesa, dalla rada boscaglia. Un altro giorno di ordinario tormento, laggiù nei Campi. Una danza scarlatta in un coro di deviamento.

« Diamoci da fare allora. Cerchiamo di capire dove si trova il grosso di questi squilibrati. »



A G H A S H
apex of the hunt

• • • • • •

salute 100
riserva energetica 100

capacità (1/1)

tooth and nail · [capacità — devianza ferale]
Come già detto, il Mannaro è un ibrido uomo-bestia costruito per uccidere, una macchina da predazione. Per questo, che sia in forma umana o in quella ibrida, ogni Fratello impara a utilizzare il proprio corpo come un'arma naturale, attaccando l'avversario senza l'ausilio di equipaggiamenti ma rimanendo equamente letale. Se trasformato potrà invece utilizzare zanne e artigli al pari del freddo acciaio degli avversari.


generatori
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tecniche
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riepilogo Ho scelto di arrivare in città dopo il massacro per ragioni narrative. Mi piaceva l'idea del Branco che - sentita una voce che scombussola i piani del gruppo - parte per Sarasamsa per una sorta di rappresaglia. Spero di non aver scombussolato o sputtanato troppo delle tempistiche che avevi previsto in-game.
Una menzione particolare a Indo al quale ho praticamente rubato lo specchietto riassuntivo. Ti devo un codice, bro.

 
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8 replies since 30/4/2020, 23:20   445 views
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